Io abitavo, allora, nella Darsena Vecchia. La mia casetta era sotto al tumulto delle vele. Quando soffiava il vento di libeccio, il tetto suonava e dal letto si udiva lo scricchiolìo delle antenne e dei bompressi. Quando il mare in tempesta rompeva sulle calate del molo, le acque ferme delle darsene salivano, le murate dei barchi investivano le altre murate, i parabarche schiacciati fra le carene crocchiavano, i fori delle gubìe risoffiando il vento pareva si dolessero; quando in quella selva d’alberi brucati ci dava la saetta, le schiezze delle antenne schizzavan sui tegoli.
Nelle sere di chiaro di luna dalla cameretta, di tra i vasetti dei garofani, si vedevano fiorire le stelle sui cimelli degli alberi, e tante rimanevano impigliate nelle maglie delle reti, stese a imbeversi di guazza. I cantarelli delle darsene, dove si lagna l’acqua che, croccolando dalle bocchette solleva i fondali dolciastri e frange sul verde limo la luna e le stelle, erano come il nostro focolare. Lì son fiorite le prime favole della nostra vita: le prue bonarie delle tartane ci guardavano con le gubìe meste, e, spesso pareva grondassero lacrime.
[…]
La mia testardaggine fu premiata con un banchetto.
Quando tutti capirono che darmi consigli era lo stesso che pestare l’acqua nel mortaio, si trovaron d’accordo e ordinarono una cena alla trattoria di “Amedeo”.
Nel salone della trattoria di Amedeo, quella sera, eravamo una tavolata. Marinai non ce n’era nemmeno uno: loro sguazzano quando son di viaggio fresco e di tasca addocciata, ma, anche allora, non si allontanano dalle bettole lungo canale, perché lì il vino schiacciarello, il baccalà col pesto e l’acqua pazza san di pesce e di mare.
Quando partono, partono taciturni, di consueto al vespero: la barca è ormeggiata all’ultima colonnetta del molo, il sole, irradiando, l’avvampa d’oro. Il commiato dalle famiglie è pacato e sereno come tra gente che segue una linea tracciata dal destino.
Invece quella sera da Amedeo ci fu, come suol dirsi, bufera. Amedeo, un bell’omaccione grande e grosso, dal cuore largo quanto le spalle, con gli occhi lucidi e chiari, pesava un quintale e mezzo. Era l’unico in tutto il paese, che non aveva fatto il passo dell’uscio: il più difficile. Artigiano della pialla e del seguretto, quando, per la sua corporatura greve, dovette da falegname trasformarsi in trattore, l’ultimo lavoro che fece fu la sua cassa da morto: la tagliò in un troncone di cipresso che, da anni, stagionava in bottega e la teneva a portata di mano sotto il suo letto. In camera di Amedeo ci sapeva dell’aroma pungente e amaro delle coccole che tonfan sotto i muri dei cimiteri dagli alti cipressi.
Amedeo, da giovane, aveva abbracciato “l’Internazionale” e, benché vestisse sempre di nero, ripeteva sovente a noi che eravamo delle frasche: «Mi son vestito di rosso a diciott’anni e ci muoio!»