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Lorenzo Viani, Parigi

Creato il 05 maggio 2013 da Paolorossi

Viareggio, Palazzo FanucciIo abitavo, allora, nella Darsena Vecchia. La mia casetta era sotto al tumulto delle vele. Quando soffiava il vento di libeccio, il tetto suonava e dal letto si udiva lo scricchiolìo delle antenne e dei bompressi. Quando il mare in tempesta rompeva sulle calate del molo, le acque ferme delle darsene salivano, le murate dei barchi investivano le altre murate, i parabarche schiacciati fra le carene crocchiavano, i fori delle gubìe risoffiando il vento pareva si dolessero; quando in quella selva d’alberi brucati ci dava la saetta, le schiezze delle antenne schizzavan sui tegoli.
Nelle sere di chiaro di luna dalla cameretta, di tra i vasetti dei garofani, si vedevano fiorire le stelle sui cimelli degli alberi, e tante rimanevano impigliate nelle maglie delle reti, stese a imbeversi di guazza. I cantarelli delle darsene, dove si lagna l’acqua che, croccolando dalle bocchette solleva i fondali dolciastri e frange sul verde limo la luna e le stelle, erano come il nostro focolare. Lì son fiorite le prime favole della nostra vita: le prue bonarie delle tartane ci guardavano con le gubìe meste, e, spesso pareva grondassero lacrime.
[…]
La mia testardaggine fu premiata con un banchetto.
Quando tutti capirono che darmi consigli era lo stesso che pestare l’acqua nel mortaio, si trovaron d’accordo e ordinarono una cena alla trattoria di “Amedeo”.
Nel salone della trattoria di Amedeo, quella sera, eravamo una tavolata. Marinai non ce n’era nemmeno uno: loro sguazzano quando son di viaggio fresco e di tasca addocciata, ma, anche allora, non si allontanano dalle bettole lungo canale, perché lì il vino schiacciarello, il baccalà col pesto e l’acqua pazza san di pesce e di mare.
Quando partono, partono taciturni, di consueto al vespero: la barca è ormeggiata all’ultima colonnetta del molo, il sole, irradiando, l’avvampa d’oro. Il commiato dalle famiglie è pacato e sereno come tra gente che segue una linea tracciata dal destino.
Invece quella sera da Amedeo ci fu, come suol dirsi, bufera. Amedeo, un bell’omaccione grande e grosso, dal cuore largo quanto le spalle, con gli occhi lucidi e chiari, pesava un quintale e mezzo. Era l’unico in tutto il paese, che non aveva fatto il passo dell’uscio: il più difficile. Artigiano della pialla e del seguretto, quando, per la sua corporatura greve, dovette da falegname trasformarsi in trattore, l’ultimo lavoro che fece fu la sua cassa da morto: la tagliò in un troncone di cipresso che, da anni, stagionava in bottega e la teneva a portata di mano sotto il suo letto. In camera di Amedeo ci sapeva dell’aroma pungente e amaro delle coccole che tonfan sotto i muri dei cimiteri dagli alti cipressi.
Amedeo, da giovane, aveva abbracciato “l’Internazionale” e, benché vestisse sempre di nero, ripeteva sovente a noi che eravamo delle frasche: «Mi son vestito di rosso a diciott’anni e ci muoio!»

(Lorenzo Viani, Parigi) scarica da Liber Liber
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