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Lorenzo Viani, Silenzio, ho finito la «Bohéme»

Da Paolorossi

Il 4 novembre del 1925 una macchina filava sulla strada pisana, lasciandosi dietro un velo di polvere bianca; Giacomo Puccini era seduto sulla sinistra (il Maestro si recava, con l’ultima speranza nel cuore, nel Belgio). A poche diecine di metri, un’altra macchina seguiva quella del Maestro. Ferruccio Pagni – che per la sua adusta secchezza il Maestro aveva soprannominato «Ferro» – aspettava sull’angolo della chiesa parrocchiale di Torre del Lago l’amico, il fratello illustre, per l’ultimo saluto.

Viareggio - Puccini in auto in via Foscolo - Foto tratta da Nuova Viareggio Ieri N.12- settembre 1994

Viareggio – Puccini in auto in via Foscolo – Foto tratta da Nuova Viareggio Ieri N.12- settembre 1994

Sul medesimo crociale, in una memorabile mattina del giugno 1891, Giacomo Puccini e Ferruccio Pagni s’erano incontrati per la prima volta.
«Le nostre conoscenze, – racconta Pagni in un libro di memorie – furono presto fatte – Pagni-Puccini. – È tanto bello, il lago. – Una stretta di mano e: – Se lei ha passione alla caccia, potrà divertirsi».

L’altra sera, algida, sul crociale medesimo, un camerata ha fatto l’appello di Ferruccio Pagni, che si era spento nell’alba, improvvisamente. Dopo undici anni, gli amici Giacomo e «Ferro» si sono ritrovati, e questa volta per sempre, nella melanconica distesa lacustre: il Maestro dirimpetto al lago, da cui trasse tante melodie; Ferruccio Pagni nel piccolo cimitero davanti alla pineta, da cui trasse tante note di vivido colore.

In questi ultimi tempi Ferruccio Pagni, livornese di nascita, torrelaghese d’elezione, figlio di un «Bersagliere della morte» del battaglione Sgarallino, pareva che fiero, serenissimo, aspettasse sempre qualcuno.

Il pertinace pittore «macchiaiolo», fedele seguace del grande Fattori, era alto di statura, segaligno, quasi del tutto scarnato nel viso, su cui quindici anni di soggiorno nell’America del Sud avevano lasciato una patina di iodio. Aveva la baldanza poetica di un antico cavaliere errante, scudo la larga tavolozza fatta a cuore, lancia la canna palustre su cui posava il polso, destiero, il cuore gagliardo.

Ferruccio Pagni è spirato a settant’anni, troppi quando non si è trovato ancora un posto nel mondo. Pagni abitava in Torre del Lago; e ogni mattina che Dio metteva in terra, acqua, fulmini o sole, egli si recava in Viareggio a piedi, in carrozza, in auto, in torpedone, in idrovolante. In Viareggio, d’inverno, lavorava in un salone deserto; l’estate il Pagni si sdigiunava or qua, or là, come gli uccelli.
– È l’inverno che mi spaventa – aveva detto ad un intimo qualche giorno fa. Ed è morto sulle soglie dell’inverno che, per la prima volta, aveva detto di temere. Una vecchia sorella nubile l’ha assistito.

Sapeva egli della sua prossima fine? Qualche intimo lo asserisce. È certo che egli non la temeva. In questi ultimi tempi pareva che aspettasse sempre qualcuno, il quale dovesse giungere di là dai monti, di là dal mare. L’ombra del grande amico forse?

All’annuale commemorazione del Maestro è stata notata l’assenza del Pagni, il fedelissimo.

Fu Ferruccio Pagni che in Torre del Lago, impugnata, una pennellessa, munito di un bidone pieno di calcina, dette la scalata al tetto del circolo della Bohème, e sui falaschi lacustri scrisse le tre fatidiche parole, che dovevano poi, sull’ali del canto, risuonare in tutta la terra. Fu il Pagni che, una notte, giocando a carte col Maestro, ebbe la consolazione di vedere illuminarsi la bella fronte di Giacomo Puccini:
– «Silenzio, ho finito la Bohème».

E il Maestro, sedutosi al piano, attaccò dall’ultimo canto di Mimi:
«Sono andati….». Via via che Puccini suonava e cantava, quella musica fatta di pause, di sospensioni, di tocchi lievi, di sospiri, di affanno, pervasa di malinconia sottile e d’intensità drammatica, profonda, ci prendeva: vedemmo la scena, tutto sentimmo quell’umano tormento.

Quando caddero gli accordi laceranti della morte, un brivido ci percosse; nessuno di noi seppe frenare le lacrime. La soave fanciulla, la nostra Mimì, giaceva fredda sul povero lettuccio, e più non avremmo udito la sua voce tenera e buona. Anche Giacomo pianse. Lo circondammo e muti lo abbracciammo.

Poi qualcuno disse:
– Questa pagina ti renderà immortale.

Quando Giacomo Puccini si accingeva a musicare la nuova Bohème nord americana, La Fanciulla del West, scriveva al Pagni, esule in America del Sud:

«Sono il despota di tutte le folaghe di Calamecca e tu non hai ancora ammazzato, imbavagliato, turlupinato colui che ha le bisacce ripiene di nazionali d’oro? Che «stilli» a ritornare al moccolo sagrosanto, che tanto ti decora le gualcite labbra? Aspetti che colei dalla falce frullana ti mini l’esistenza? Caro professor di buio e pittura, vieni al ponce notturno, mentre io sto strizzando il mio cervello per una nuova Bohème».

Ferruccio Pagni, disperato di poter riapprodare alle sponde di Calamecca, indugiava a dipingere, sopra un pezzo di legno dei canneti, degli uccelli di palude, degli sfondi di pineta; e d’un balzo, con l’accesa fantasia, si trovava vicino al capanno del Maestro, all’aspetto delle folaghe. Ma, quando il sogno; era dileguato, un accoramento forte lo affliggeva:
– O inobliabile Torre del Lago, come sei lontana!

Un tempo, dei mettimale avevano potuto velare la bella amicizia tra il pittore macchiaiolo e il Maestro. Con questa desolazione il Pagni si era avventurato nelle lontane Americhe.

Ma eccoti che, un giorno, tutti i giornali di là annunziano che il Maestro sta per giungere nel porto di Buenos Ayres. Il Pagni raggiunge la Capitale argentina, s’annienta nella moltitudine che attende ansiosamente il Maestro. Ecco la nave si profila, s’approssima alla panchina, gli stendardi, di sul pietrato, si innalzano festosi: urli di gioia, pianti di verace commozione. Il Pagni si sente come morire; ma domina lo slancio della commozione, e s’allontana desolato. Lo scorge Leopoldo Mugnone e lo invita a seguirlo.

Due giorni dopo, giunge al Pagni questa lettera:

«Caro denti di «Fero» (i lucchesi pronunziano la parola «ferro» con una sola erre) ho saputo da Mugnone che eri al mio arrivo. Mi dispiacque non averti veduto. Ormai acqua passata non macina più; e, dando un frego sulle nostre trascorse istorie, vivamente desidero parlarti. Io rimango qui quindici giorni (o poco più). Sento dire che ritorni in Italia e che già sei diventato milionario! Bene.  Saluti affettuosi dall’amico Giacomo. (Scrivimi)».

– Il cuore mi urtava in petto, – racconta il Pagni, – le lacrime mi vinsero. Il pentimento di non aver avuto lo slancio di Giacomo mi mordeva. Mi buttai su di un treno diretto alla Capitale (il Pagni, a quei giorni, era direttore a Rosario, di un’Accademia di Belle Arti, da lui stesso fondata). A mezzogiorno mi aggiravo trasognato presso il Teatro dell’Opera: vidi Mugnone che, in tono imperativo, mi ordinò di andare subito da Puccini. Non chiedevo altro. Il Maestro era ospitato nel palazzo della Prensa e vi occupava l’intero secondo piano…. Quando mi feci annunziare, l’attesa fu breve. Alcuni secondi dopo, si aprì una porta e apparve la faccia sorridente di Giacomo. Non posso rivivere nella memoria quell’incontro senza commuovermi.

– Finalmente – urla Giacomo–…. ce n’è voluto per scovarti, cinghiale della Pampa. – Sempre lui, Giacomo, sempre lo stesso, l’eterno Giacomo, tale e quale.

Dovevo ripartire la sera; Giacomo pose il veto. Tornai a Rosario, ma più di un mese dopo, quando il Maestro s’era imbarcato per l’Italia. Come fu doloroso il distacco! Puccini voleva che partissi con lui e mi esortava a «spopolare le Americhe» e ritornare a «Torre». Resistei a tutti gli assalti, a tutte le lusinghe, quantunque l’idea di tornare a casa mi desse le vertigini. Puccini tornò in Italia ai primi di agosto; io dopo quattordici anni.

Ma il ritorno di Ferruccio Pagni macchiaiolo, arrisicatore livornese, doveva avere certa solennità. Nel maggio del ’17, i sommergibili tedeschi incrociavano su tutti i mari. Ferruccio Pagni sentì forte il desiderio di rivedere le amate sponde della sua patria; e s’avventurò sul mare, non portando seco nulla.

Nelle notti stellate e senza vento, a pruavia della nave che lo riportava in Italia, molti pavidi viaggiatori scorgevano un elegante signore, alto, dritto, impassibile. Era «Ferro» che guardava il bulicare delle acque, commosse dal transito delle armate degli squali. I più vicini udirono una sera delle filosofiche brevi parole:

– Sarebbe una bella tomba.

 

( Lorenzo Viani, Silenzio, ho finito la «Bohéme», racconto tratto da “Il cipresso e la vite” )

 


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