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Lorenzo Viani, Tosse di fame, sete di «Leonardo»

Da Paolorossi

La tosse di fame è una tosse secca attaccaticcia, una di quelle tossi a cui i medici dicono stizzose; non contagiosa come l’asinina, si può curare anche con un secchio d’acqua.

Lo scrivente, disceso dal colle di Vinci, alle sonanti sponde dell’Arno, si è seduto alla fresca ombra di un pioppello; poco lontano un giovane discarnato e allampanato è stato preso da un attacco di tosse convulsa che gli ha fatto schizzare gli occhi trotati di sangue fuori del capo. L’insulto si presentava con tutti i caratteri della tosse di fame, onde per amor del prossimo ho domandato:

– Hai tu fame?
– Io mangio soltanto per bere, – ha risposto l’infermo.
– Hai tu sete?
– Beverei un «Leonardo».

VINCI — PANORAMA - Foto tratta dal libro

VINCI — PANORAMA – Foto tratta dal libro “Il Valdarno da Firenze al mare”, 1906

Per amor del prossimo – «Dai da bere agli assetati» – ho invitato l’infermo a uno di quei tavoli che son fuor all’osterie toscane, d’estate coperti dai tralci delle zucche frataie e d’inverno da un verde inceratino.

– Padrone, portate un «Leonardo»!

È d’uopo chiarire che non si trattava di un volume del Signore di verità, Il trattato della pittura per esempio, che i pittori leggono ancora con gran profitto, ma di un fiasco di vino del Castello di Vinci, il cui produttore ha fatto incollare la «grande effige» sul collo di ogni fiasco, e che i trascurati di questi luoghi, incorporando liquido, recipiente, etichetta, chiamano così alla brava un «Leonardo».

Passeggiando per queste campagne, gialle alluvionali riarse, si possono vedere nelle vetrine le ultime vestigia delle glorificazioni commestibili e potabili che furono assai in auge il secolo scorso: busti di Giuseppe Verdi di cioccolata, l’Alighieri, il gran conterraneo, di pasta frolla, l’amaro Torquato Tasso di zucchero vanigliato, Francesco Ferruccio su di una bottiglia d’acquavite, e altri moltissimi scolpiti su pipe di nodo di ciliegio, su pomi di bastoni, orologi a pendolo, specchiere, bocchini.

Il «Leonardo» monumentale, tra bagliori di rubini, è stato sboccato, e sono stati avvinati i bicchieri per togliergli il dolce sapore dell’acqua. Bevendo, il discorso è caduto sulle invenzioni derise prima, glorificate poi. L’infermo si è dimostrato dotto: non ignorava che fu chiamata impostura l’invenzione del fonografo, che la Reale Accademia britannica insorse contro Franklin ricusando di dare alle stampe il suo studio sui parafulmini; sapeva che nessuno volle credere a Lebon quando risolse il problema della illuminazione a gas: «una lampada non può ardere senza lucignolo».

Tutto sapeva l’infermo e narrando sospirava. Sul viso tagliente come una scure spiccavano due occhi ceruli e assorti, sotto la roncola del naso la bocca era sigillata con la ceralacca di due labbra affebbricate, il mento volto arditamente in su da un colletto inamidato e brunito dall’uso soverchio, che il nodo scorsoio di un cravattino costringeva all’aderenza del collo scarnito e sul cravattino, confitta a mo’ di spillo, un’elica di aeroplano in miniatura, girevole, che, avventata dai gesti convulsi, frullava come un molinello: immagine viva di quel cervello in consulsione. Vestitino a quadretti grigio-neri, ghette color pancia di topo, calzini viola, scarpe nere, orologio al polso della grossezza di una cipolla mezzana.

– Cosa sarebbe l’udito quando non ci fosse all’esterno consistenza di rumori?

Alla domanda concitata e imperiosa ho subito risposto:

– Una tromba attaccata all’osso parietale.
– Che cosa sarebbe l’occhio senza la luce esterna?
– Un ordigno da specola.
– Cosa sarebbe il vasto campo dinamico cerebrale, quando non fosse reattivamente collegato con la massa del gran cosmo?
– Una ricotta dentro due scodelle saldate.
– Ma spiegatemi il perchè di queste domande a tiro rapido.
– Prima un breve respiro, – e l’infermo beve.
– Ma voi avete bevuto.
– Beve anche il prete all’altare: dunque io, con l’I maiuscola, sono il creatore dell’«Occhio chimico», l’ordigno è qui, – e l’infermo si è dato un colpo secco sulla fronte.
– Oggi abbiamo la macchina per ogni cosa; oggi a macchina si preme, strizza, schiaccia, comprime, imprime, esprime, deprime, si carda, arroventisce, impasta, trebbia, buratta; verrà giorno in cui, – la scienza di domani mi renderà la dovuta giustizia, – noi troveremo, per noi, i pezzi di ricambio, e ci ridurremo smontabili. Un occhio non funziona più? Si cambia. È impossibile pensare che chi ha perduto la lente di comunicazione dall’esteriore all’interiore abbia perduto la possibilità e la coscienza del vedere.
– Per me è algebra.
– Il mio ordigno dev’essere uguale agli occhiali comuni. «Gli occhiali a chi non ha occhi?», mi è stato obiettato: «Vili!». Risponderò col filosofo: «Quali gli occhiali, tale la cosa. Due lenti parallele equidistanti, costrette entro un anello ermetico saranno, preventivamente intromessi, chimicamente composti, i tre umori di cui si compone l’occhio: l’acqueo, il cristallino, il vitreo. Or voi sapete che l’umore acqueo è un liquido trasparente e si trova nella camera anteriore e posteriore dell’occhio, la membrana che racchiude l’umore acqueo è pertugiata in corrispondenza della pupilla e la capsula della lente cristallina è trasparente e solida; talchè, introducendo, tra le due lenti equidistanti, fosforo chiarificato, con olio di glicerina filtrato, essendo la capacità solare metalloide e di quattro rossi vibranti, ultra rosso, infrarosso, ultravioletto, infravioletto, e, vibrando sulle lenti, questa luce esterna attraversa l’apparecchio, vibra, illumina, ricrea le immagini alla massa cerebrale».

La delucidazione essendosi assai complicata, ho pregato l’inventore di dettare parola per parola ed egli lo ha fatto con ordine tenendo a volte le parole sospese tra il pollice e l’indice nell’attesa di essere trascritte. Dopo la complicata descrizione, l’inventore ha domandato un breve respiro:
– Lo prende anche il prete all’altare, – ha detto.

Il «Leonardo» è come una bombola d’ossigeno prossima a svuotarsi.

– Noi è innegabile che siamo un tutto organizzato, un piccolo universo, un microcosmo dal momento che ogni punto espansivo… – L’inventore, a questo punto, è stato colpito da amnesia, e: – Dove siamo rimasti? – ha chiesto.
– Al punto espansivo.
– Questa espressione di semplice relatività è un sentimento che la scienza di domani… mi sento vanire, dove siamo rimasti?
– Alla scienza di domani.
– Già, la scienza di domani, la somma scienza della coscienza chiarita col fosforo… dove siamo rimasti?
– Al fosforo.
– Senza quello, non si fa nulla.

Il padrone della taverna, che fino allora aveva suonato il violino sull’osso di un prosciutto scarnito con l’arco di una sottile coltella affilata, si è fatto sull’uscio ed ha chiesto:

– Costaggiù si parla di cose difficili?
– Che non sono di tua competenza, – gli ha urlato l’inventore, come ridestandosi da un lungo letargo, – e ritirati tosto nel tuo propugnacolo, malfidato che altro non sei… mi faresti far la fine di Galileo Galilei.

Leonardo da Vinci, per accendere delle vive immagini nel suo occhio aquilino, versava su di un ammattonato rosso degli strosci impetuosi di acqua, i quali, allargandovisi, lo arabescavano con figure e mostri mutevoli, a cui, di poi, egli dava ferma e durevole forma nell’arte.

– Motore a forza idraulica, – così ha definito Leonardo il suo conterraneo.

Il vino gettato a stroscio giù per il canal della gola, vino ardente e legittimo di questi colli fiammati dal sole, suscita vivide immagini, vigorosi pensieri, che si dilatano tosto e vaniscono e brucano come foglie verdi prese da una raffica di vento infuocato.

Le pioppete lungo l’Arno intenerite da questa esitante primavera mettono gemme verdeveronese sul cielo turchino, e par dicano anche agli uomini: «Mangiatemi, mangiatemi!». Branchi di pecorelle al calcio brucano erbette e fiori di maggio. L’inventore ha tolto una scorza da un albero, biscottato dal sole, e con quella si gratta le gengive; il «Leonardo» aggrottato ad ogni brusco movimento del tavolo traballa; un altro «Leonardo», vuoto e appiccato ad un ramo di pin secco imbullettato sopra la porta della taverna, secondo l’antica costumanza toscana, mosso da un venticello piacevole, dice sì e no col capo come i pioppi, come il pendolo dell’orologio.

Repentinamente l’inventore è stato preso da un assalto di tosse convulsa.

– È tosse di fame?
– No! È sete di «Leonardo».

 

( Lorenzo Viani, Tosse di fame, sete di «Leonardo», racconto tratta da “Il nano e la statua nera” )

 


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