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Lorenzo Viani, Tra le carte del «Mago»

Da Paolorossi

Qualche anno fa, in Lucca, una sera di vento e di piovasco, un uomo basso e pingue, discretamente intabarrato, si aggirava cauto, sospettoso, guardingo, nei pressi della «Scuola serale Volpi», spiando, di sotto le gronde di un cappello a fungo pioppino, i ragazzi che sfalcavano dai vicoli e dai chiassoli per raggiungere ratti la scuola, allogata in un palazzo vescovile. Per una fuga di sottoportici che si addossavano in basse arcate al rosso palazzo turrito di Paolo Guinigi, lo scenario e l’uomo ricordavano il Trovatore. Il misterioso uomo, baffi a granturcale, naso a petonciano, era Ugo Brilli, che, provveditore agli studi della provincia, spiava, circospetto gli alunni dell’unica scuola non inquadrata nei suoi ruoli.

Lucca - Torre Guinigi - Foto tratta da Versilia giovinezza del mondo -  Pacini Fazzi Ed. 1982

Lucca – Torre Guinigi – Foto tratta da Versilia giovinezza del mondo – Pacini Fazzi Ed. 1982

Da Roma gli avevano scritto che quelli studenti erano un esempio. Approssimandosi l’ora che dava termine alle lezioni, Ugo Brilli accese un mezzo toscano e si appiattò dietro il canto. I primi due scolari che uscirono come frecce dal portale baloccarono qua e là col capo, poi, scorto l’uomo intabarrato, gli andarono incontro urlando:
– Un fiammifero al volo!
– Vedete fanciulli, – redarguì paternamente il Brilli dovevate dire: «Signore, per favore, avrebbe da regalarci un fiammifero?».
– L’abbiamo detto, – soggiunsero impronti i ragazzi.
– Vedete fanciulli, ora aggravate l’atto ineducato con una bugia.
– Noi gli si è detto tutto il conveniente.
– No, – ribattè risoluto il Brilli.
– Eh, si è capito con chi s’ha a che fare! Arrivederci a poi. – E lasciarono il Brilli a bocca spalancata.

Lucca

Lucca

Dopo quarantacinque anni di insegnamento Ugo Brilli prese commiato dalla Scuola e si ridusse in Viareggio: il mio paese. Rasi i baffi serotini, che un dì gli valsero il soprannome di «Mago», il viso glabro aveva del canonico accigliato; quasi cieco, incerto nell’incedere, ma grave, con la fronte a larghe bozze, aculeata di ciglia aspre, su cui sgrondava un cappelluccio fioscio e leggero, il Vecchio faceva sosta all’«Orione». Nella piccola mescita intestata al figlio di Poseidone, tra i discorsi senza costrutto veruno e senza fondamento, egli doveva affliggersi, chè assumeva degli atteggiamenti disperati, ora serrandosi la fronte con ambo le mani, ora lasciando cadere la testa pesante sul petto: – Oh Dio, oh Dio!

Un pomeriggio capitammo all’«Orione» io e un amico conoscente del Brilli, il quale gli gridò:
– Qua c’è Viani.

Brilli si scosse come da lento torpore e ruzzolò verso noi tutti gli sgabelli che aveva a portata di mano, gridando:
– Sedete, bevete, parlate.

Dopo pochi minuti si navigava in pieno Carducci. Per tutto quel pomeriggio parlò quasi sempre lui di cose solenni: del pessimismo in Leopardi e in Carducci, dell’educazione, della morale, di Dio.
Ugo Brilli, seduto ai tavoli dell’ «Orione», – marmo di breccia, fior di pesco dell’Altissimo, – popolava di ombre i lunghi silenzi; tra queste balzavano, primi, i compagni di scuola.

«Una fresca mattina dei primi dell’ottobre 1873 entravo lento e pensoso sotto il portico del Bibbiena, che è l’atrio esterno del Comunale di Bologna, quando un giovinetto, alto, smilzo, con aria di collegiale sperduto che veniva su da via dei Castagnoli, attirò curiosamente i miei occhi. Avvicinatici, egli guardò me, io lui: forse dai reciproci sguardi guizzò un lampo di simpatia. Sopra il suo viso pallido, incorniciato di due ciocche d’oro spioventi, di sotto le tese strette di un cappelluccio duro, colsi un’impressione di tristezza: osservando bene parve mi ravvisasse nella fantasia l’immagine di Medoro schizzato dall’Ariosto nell’ottava che si chiude col verso soavissimo Angiol parea di quei del sommo coro». 

È il primo incontro del Brilli con Giovanni Pascoli. Poi, in ordine di tempo e di luogo, Gherardo Casini, di buona famiglia di Badia Polesine, Roberto Della Colla, di Bobbio, Licurgo Pieretti recanatese, Giovanni Ricagni, coscienza adamantina di studente piemontese. Tutti quelli che, insieme al Brilli, riuscirono vincitori delle sei borse di studio che in quell’anno il Municipio di Bologna aveva messo a concorso.

Anche il Pascoli serbò del vecchio compagno di scuola un affetto fraterno. Il destino li volle vicini: Castelvecchio dista pochi chilometri da Lucca. Quando il Brilli fu traslocato da Lucca a Reggio Emilia, il Pascoli fu desolatissimo.

«Perchè, – egli scrive, – per me a vedere Brilli era di una dolcezza, di una gioia, di una luce giovanile. Per i miei miseri conti d’avvenire ci voleva a Lucca il mio Brilli! E che fare? Caro Ugo, vieni, vieni, vieni amato e desiderato, parleremo, mangeremo, beveremo e sogneremo. E poi debbo fare la prefazione alle Odi e Inni, e devo prendere appunti. Stai allegro, mio caro amico vecchio, come si può in questo decrepito mondaccio intarmolito. Pascoliamo brucando questa erbetta sui fossi della strada come queste due vaccherelle a cui è interdetto il prato pieno di trifoglio. «Giova anche così». Vieni subito, il 28 debbo partire. Per San Giovanni non mi mancare, per carità. Ti racconterò belle cose. Parti subito, io ci conto. Tre o quattro o cinque giorni di fraterni colloqui ci faranno bene a tutti e due. Poi ritornerai per la grande calura. Ridiverrai poeta come a quel tempo, in quella viuzza di Bologna…. Merlino onnipossente incantatore.

Caro Ugo, vuoi venire? Prendi la diligenza e avvisami il giorno prima che ti verrò a prendere o a Barga (se prendi quella di Barga: piazza Sant’Andrea: due lire), o al ponte di Campia (se prendi quella di Castelnuovo di Garfagnana: Albergo della Campana: tre lire). Vieni prima di San Giovanni (24 del mese), nel qual giorno Maria (che ti saluta), mi festeggia con un caro desinaretto: quadretti con rigaglie, prosciutto, lesso di manzo all’italiana, vitella in umido alla paesana, galletti di primo canto, arrosto alla casalinga; vini: toscano vecchio, bianco delle Cinque Terre, sangiovese di sette anni, caffè. L’abito non è di rigore. Si mangia, se si vuole, in maniche di camicia.

«Ma, ma non sai che devo pubblicare Odi e Inni e l’altro volume? E che l’uno e l’altro avranno una prefazione? Il primo rievocherà nella prefazione gli anni di Bologna, quindi te. Prima avevo pensato di dedicarlo a Giosuè Carducci e di parlare di lui, di te, di Severino, et ceteris. Poi, ho mutato definitivamente pensiero: rivolgermi al Maestro parrebbe un volere accattare il suffragio di lode o di compatimento. Mi rivolgo dunque a te e parlerò di lui. Va bene? E sta’ zitto. Io voglio dedicarmi a un’impresa che tornerà molto più a utile mio che tuo, quella di farti venire a Lucca. Oh, potessi venir tu presto! Mi pareva d’avere a Lucca un caro parente, – ci sono cari parenti e parenti cari, – da cui andare a passare un po’ di tempo tra dolci memorie e festosi banchetti! Vado a Pisa senza nessun entusiasmo. Se tu venissi a Lucca, avrei fatto bene; se non vieni a Lucca, così così. Ama il tuo Giovanni».

Molte cose io chiedevo al Brilli per farmi una idea esatta del Carducci uomo. Seppi gli acerbi corrucci, gl’impeti contenuti, gli sdegni per il rumore sollevato intorno al libro che uscì contemporaneamente alle Odi Barbare, edito coi tipi medesimi e dalla stessa Casa. Seppi di certi schizzi d’acqua di seltz contro il soffitto di una fiaschetteria bolognese, accompagnati da un bramito: – Poesia anche questa.

Seppi che il Maestro consegnava al discepolo alcune poesie manoscritte inedite e voleva ch’egli le postillasse e ne scoprisse i lati vulnerabili.

– Io, – narrava ancora timoroso il Brilli, – rivoltavo giornate intere nelle tasche il manoscritto, disperato per il compito assegnatomi, e la sera, alla fiaschetteria dove soleva trovarci, non avevo il coraggio di fissare in volto il Maestro che m’interrogava arcigno con gli occhi.
– È vero, – chiesi una sera al Brilli, – che il Carducci non andò mai a Parigi per superbia, non pronunziando il francese a perfezione?
– Dica per orgoglio! – strepitò minaccioso il Brilli. – Dica per orgoglio!

Passato l’uragano, avanzai un’altra domanda:
– E di Dio, cosa pensava il Maestro?

Brilli sospirò questi versi:

Profonda, solitaria, immensa notte
visibil segno del divin Creato. 

E mi fece un gesto con la mano che voleva significare: «Ne riparleremo».

Il 25 agosto del 1925 Ugo Brilli s’abbattè sereno nella morte. Nella via strepitosa trombe di automobili, come rauche voci d’ombroso augurio, conturbarono il trapasso sereno. Un carnevale estivo folleggiava intorno alla casa silenziosa.

L’effigie di Giosuè Carducci: «Al mio vecchio amico Ugo Brilli» era da capo al suo letto, quelle di Severino e di Pascoli erano ai lati. Aperte le «carte», in una busta con su scritto Dio – appunti era conservata questa lettera della figlia di Giosuè Carducci, in cui vaga la grande Ombra.

«Caro amico Brilli, 
Purtroppo ho poco da dire. Ricordo che l’agonia durò parecchio tempo. Il malato viveva per forza d’ossigeno e per le punture cutanee che all’ultimo più non sentiva. La mamma, seduta sulla sponda sinistra del letto, teneva una mano di lui nelle sue di niente altro curante; noi, le tre figlie, sedute in fondo alla camera per lasciare aria al malato, tenevamo gli occhi fissi al caro volto straziate dal respiro affannoso e sembravamo statue.
Manlio andava e veniva, così Gnaccarini. Vi era lo zio Walfredo, il marito della Libertà, fuori di camera però; le tre bimbe, cioè l’Elvira, la Margherita e la Luisa, erano nella stanza attigua insieme a Giosuè che in grande silenzio passeggiava su e giù.
Le bimbe ogni tanto facevano capolino, ma erano prestamente allontanate dal Boschi, il quale nervosissimo non avrebbe voluto assolutamente nessuno nella camera, e noi, io e la Libertà, dovemmo accontentarlo; ma per poco stemmo lontane dalla camera dove avevamo lasciata la nostra anima.
Proprio agli ultimi ci raccogliemmo tutti nella stanza. Egli respirò più forte…. poi debolmente…. poi più nulla.
Non parlò mai…. forse non poteva più; muoveva appena gli occhi alla voce del dottore, all’ultimo
non sentiva più neppure quella e non sentì forse nemmeno la mia quando gli domandai
«Babbo, mi senti? Sono la Bice».

Dunque non ha mai parlato e non ha mai pronunziato: Dio. Se n’è andato come un bambino, direi quasi senza sapere di andare. C’eravamo; tutti, tranne Giulio che arrivò dopo due ore, con quale sgomento lo sa Iddio solo. A poco per volta ritornammo alle nostre case, Manlio rimase; egli aveva già vegliato due notti e si preparava a vegliare la terza, fu lui che chiuse gli occhi al nonno tanto amato ed ecco quanto posso ricordarmi e spero di aver ricordato fedelmente; ma ero tanto disorientata che mi sono rimasti ricordi confusi.
Di certo non parlò, nè nominò mai: Dio.» 

Rileggendo stasera questo scritto appassionato di sul folto dei pini a levante, dove nereggiano le cime dei cipressi sotto i quali riposa Ugo Brilli, mi è apparsa come la sua ombra rasserenata in un gesto discreto:

– Ne riparleremo.
– Di là?

 

( Lorenzo Viani, Tra le carte del «Mago», racconto tratto da “Il cipresso e la vite” )

 


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