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Lorenzo Viani, Viaggio alla luna e moto perpetuo

Da Paolorossi

 

Pubblicato su 6 settembre 2013 da 

 

Viareggio - Via S.Antonio - Foto tratta da

Viareggio – Via S.Antonio – Foto tratta da “A Viareggio con il treno dei ricordi”

Luigi Simonetti è laggiù, nel cortile del Gran Casamento, che si scorge di tra questi albatrelli verdi e vermigli, affissato nel sole vibrante. Sulla sua fronte aperta c’è la serenità della predestinazione; nel fondo delle pupille aquiline splende la sicurezza del grande viaggio siderale: «O ora o mai!». Egli ha del Santo, dell’Eroe, e del Savio ed è un pazzo. Egli sentenzia: «Mai cadde quercia al primo colpo: provare e riprovare». Era la massima di Galileo. Ma l’occhio non si stacca dal sole abbacinante.

Viareggio - Via S.Antonio e Via Galvani - viste dalla Torre Matilde

Viareggio – Via S.Antonio e Via Galvani – viste dalla Torre Matilde

Il Simonetti lavorava di calzolaio in un bugigattolo di bottega, situata nel quartiere conchiuso da via Galvani e via Zendrini. Egli sapeva del brodo di rane, preparato dal celebre fisico alla moglie malandata, e di tutti i fenomeni che si determinarono: muscoli agitati da forti convulsioni, sprigionamento di scintille. Del matematico Zendrini conosceva una grande callaia, una cateratta a bilico elevata sulla strozzatura del canale Burlamacca, ove s’annodano tutte le fosse della palude, che si chiude quando gonfia il mare, e si apre quando si deprime, bello e magistrale artifizio idraulico, che impedisce all’acque salse di mescolarsi con quelle delle paludi. Quando la cateratta, per il soverchio dell’acque marine, era chiusa, le rane gracidavano al di là nell’acque morte: «È stata una rana che ha illuminato Galvani» e il Simonetti andava a meditare lungo i canneti, sui cigli friabili dei fossi palustri.

Viareggio - Canale Burlamacca - Cateratte

Viareggio – Canale Burlamacca – Cateratte

Quando egli faceva sosta su qualche aia, dove nereggiasse un pomo, allora il Simonetti, dotto quanto uno scaffale di libri, schiariva al contadiname stupefatto: «Un pomo ci tolse il Paradiso, un pomo accese la guerra di Troia, un pomo colto con la freccia da Tell sulla testa del figlio diede la libertà alla Svizzera, ma il più miracoloso di tutti, o fratelli, è che un pomo rivelò, cadendo, a Newton le leggi della gravitazione, e a me il globo aerostatico di Montgolfier ha rivelato che si può, e si deve, approdare lassù».

«Dove?», chiedevano mezzo spauriti i contadini. «Lassù, o fratelli», e il Simonetti, nella cui fronte splendeva la serenità della predestinazione, accennava la luna, che tra lo scialbore prendeva largo nel cielo, invelata alla latina. «O ora o mai!», diceva risoluto il Simonetti.

Vicino alla bottega del Simonetti abitava un ebanista strutto dalle meditazioni: viso giallo di penitente, con dei pelettacci di barba, patiti, stecchiti, e due occhi di allucinato, che fissavano sempre il flusso e riflusso dell’acqua del canale, il perpetuo ribollire delle chiaviche, l’eterno andare e ritornare dell’acque, dal mare alla palude, dalla palude al mare: «Tutto si muove in lento giro eterno », diceva l’ebanista, sparendo nel retrostanza della sua bottega. Quando l’ebanista era nel retrostanza, i ragazzi potevano prendere tutta la bottega e i clienti potevano sfiatarsi a chiamarlo. L’ebanista pareva sepolto vivo. Quando usciva di lì, egli era sempre rabbuffato.

 Vicino, confinante quasi alla bottega dell’ebanista, c’era il mio studio, un androne lungo quanto due soldi di refe e buio come una caverna. Sovente l’ebanista capitava da me e si sedeva, come i musulmani, sopra un mucchio di alga marina: «Tu hai risolto il tuo problema, ma io…», e l’ebanista sospirava come uno che è sopraffatto da grande inquietudine. «Tutto si muove in lento giro eterno», e l’ebanista usciva quasi piangente dallo studio.

Un giorno che il fosso correva torvo, e l’arie eran di piombo, l’ebanista seduto come uno scriba egizio di creta cruda sopra una colonna, appena mi scorse, s’alzò, si fece avanti, dicendomi piano piano: «Ho trovato il moto perpetuo». Nel fondo dei suoi occhi tenebrati saltava la pazzia. Con le mani gelide, come quelle dei morti, mi prese per un polso e: «Vieni e vedrai!». Entrammo nel retrostanza. Sulle pareti nude, come quelle di un carcere, c’era soltanto un crocifisso di gesso pitturato di nero; nel mezzo al retrostanza, un tavolo, su cui era una specie di colossale buratto; nel centra del buratto c’era un pilastro, al cui vertice era invitata una puleggia d’acciaio; una ruota di legno, perniata da un ferro sottile come quello da far calze, era da una parte. L’ebanista

tolse la ruota di sul tavolo e mi mostrò certi contrappesi di piombo alternati, i quali, dopo una spinta, quando la ruota era collocata sul vertice del buratto, e il ferro centrato sulla puleggia, dovevano farla girare per l’eternità. «L’eternità è di là da mai. Ricordatelo». Disse l’ebanista: «Lo so!». Quando l’ebanista ebbe centrato il ferro e posta la ruota sul buratto, gli diè l’abbrivo e poi cominciò a girare anche lui intorno all’ordigno, sì che pareva un ciuco aggiogato alla ruota frantoiana: «Tutto si muove in lento giro eterno». L’ebanista fu preso dalle vertigini; stramazzò in un canto.

Quando un vento impetuoso, quello che fa guasto nel verno crudo, che scerpa la boscaglia e caccia il fogliame nei fondai, quei punti bassi e concavi delle selve, su uno di questi si vedeva sempre seduto un uomo, il quale, ogni tanto, alzava una mano quasi per misurare l’impeto delle raffiche: «Che diavolo di predace è questo? – diceva. – Là verso l’estate farebbero comodo queste giornate, quando l’arie sono arroventite. Oggi? Ma oggi se ne poteva fare a meno. Sento una certa brezza». Il fogliame in gorgo di vento s’ammolinava contro una quinta di lecci centenari e dava forma di gigantesco succhiello al vento: «Ho scoperto l’arcano; se al posto della quinta di lecci ci fosse un colossale serbatoio, si potrebbe immagazzinare il vento». Questo Eolo boschereccio, con la giubba sulle spalle e la testa sconvolta dal vento e dalla pazzia, s’avviò sorridente ed ebbro verso il paese.

Fantasticò una conchiglia mostruosa, armata d’archi d’acciaio, entro cui padiglioni rotondi, a vite, contenessero l’impeto del vento e per boccaporti e reticolati, fitti fitti, lo filtrassero in padiglioni più capaci, a basse arcate, sterminati, in cui vegetassero perenni erbe a tortiglione, con fogliame cellulare rattorto, sì che la raffica rimanesse del tutto impigliata nell’artificiale labirinto e l’impeto fermasse lo sportello, da cui era penetrata.

Capitò anche lui allo studio: «Mi manca il disegno, soltanto il disegno: l’edifizio è qui». E l’Eolo boschereccio si percuoteva la fronte, che aveva il tono e il colore del cemento armato: «Mi basterebbe uno schizzo; un’idea, un che; il rimanente è qui; lo sento, lo vedo… Io sarei capace di costruirlo, da solo». «Cosa?» «Aiutami. Imaginati che qui entri una raffica di vento impetuoso e che noi volessimo immagazzinarla». «Sì». «Bisogna costruire come un immenso orecchio di cemento a padiglioni arcati con chiudende d’acciaio, filtri, intoppi, rintoppi; bisogna immagazzinare il vento».

«E poi?» «La vita è vento:

Disse a un ventaglio un vecchio Archimandrita:
– Dimmi, o ventaglio, che cos’è la vita?
E il ventaglio, con molle ondeggiamento:
– È tutto vento, vento, vento, vento!

«O fratello, la vita è vento: fammi il disegno; è la nostra fortuna».

Da una ciminiera tubolare di mattoni rossi, – punto esclamativo sulla pagina del cielo mutevole – eruttava perennemente una fumacea nera nera, che metteva su buona parte del firmamento una capigliatura nera sciolta dal vento, le nuvole bianche se ne tenebravano, come la biacca sopra la tavolozza di un pittore, quando il nero inferno si scioglie tra le sbavature della trementina. I cirri color rosa, al di là dei monti celesti, erano messi sotto un velo luttato; la fuliggine cagliata bruniva l’erba verdissima. Nei giorni in cui la fornace ardeva in modo spropositato, sul cielo lattato pareva si fosse rotto il sacco di una seppia mostruosa. Tutto anneriva; una neve di piombo si posava sui tetti rossi e li riduceva di lavagna gelida.

Ritto sull’orlo della callaia, a rischio di precipitare giù tra il limo dei fondali, un uomo si affissava sull’esclamativo rosso e fumante. Quante volte egli, uomo di mare, aveva sentito invocare, nelle sere di chiaro di luna, un po’ di nebbia per poter con la fiocina portarsi sulle armate dei pesci e sterminarle: «E pensare che tutta quella grazia di Dio se la mangia, se la rimangia, il cielo e la rende, quando tormenta; mai a tempo e a luogo». E l’uomo pensò un numero infinito di sacchi di cuoio, i quali, posti capovolti sulla boccaiola della ciminiera, potevano riempirsi prestamente, e poi sciogliersi a tempo e a luogo: – «Deposito di nebbia artificiale». – Fammi questo cartello; il rimanente viene da sè.

Tutti là, ora, nel cortilone recintato di muraglie altissime, su cui si posano gli uccelli pellegrini.

Noi confitti al nostro orgoglio,
ci muoviamo in giri eterni,
come ruote in ferrei perni,
sempre erranti e sempre qui.

L’ebanista, nel perpetuo girare rasente al muraglione, ha la illusione che tutto si muova in lento giro eterno. Il Simonetti, nel chiarore lunare dei marmi e nel tono cerulo delle vestimenta, ha l’illusione d’essere approdato nell’astro d’argento. Quello che voleva immagazzinare il vento, nel brusìo dei padiglioni sente il gemito di raffiche spente dalla prigionìa. Quello che voleva imballare il fumo, nei compagni accosciati lungo il muraglione, col capo ciondoloni sulle ginocchia, vede tanti sacchi di caligo, capaci di torbare il cielo che sta su loro come una pietra: «La vita è vento – Il mondo è fumo – È moto – Perpetuo!».


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