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Lorenzo Zumbo: di una terra iniziatica

Da Narcyso

Lorenzo Zumbo, IL VENTO CONTAPASSI, Mesogea 2014

il vento
Questo piccolo libro di Lorenzo Zumbo è scritto in una forma praticata in sordina, mi sembra, nella nostra letteratura, e che pure ha dato frutti suggestivi anche da un punto di vista teorico.
Si tratta di una narrazione per frammenti memoriali, sospesa tra prosa poetica, reverie, cronaca interiore, essai. Un genere misto, dunque, quindi a parte, perfettamente comprensibile se si considerino le frammentazioni di un novecento appena trascorso, i dubbi rispetto al senso di un racconto platealmente epico o socialmente impegnato; ma anche reazione involontaria a un narrare dove deve accadere per forza qualcosa e in cui la trama, pensata a tavolino, quasi mai corrisponde ai tempi e ai flussi naturali della vita.
Parlavo di esiti anche teorici, e mi riferisco al fatto che, in questo tipo di scrittura, esiste una riflessione di sottobosco non dichiarata, immediatamente sublimata nel dato della percezione sensoriale, capace di abbassare il “sentimento” astratto dell’intelletto e di riportarlo alle ragioni primordiali del sentire.
Lorenzo Zumbo ci parla, dunque, della sua Sicilia; del paese della sua infanzia Tonnarella, vero ombelico del mondo come tutti i territori che delimitano i confini dell’origine. Di microviaggi e spostamenti infinitesimali. Tutto ciò è narrato in una prosa delicatissima e poetica, nella distanza del ricordo e nel tentativo di comprensione dei lacerti esistenziali che continuano ad abitarci.
Come nella migliore letteratura siciliana, però, avviene che il dato esistenziale, pur salvaguardato, finisce per vestirsi di connotazioni metafisiche, delle stimmate di un’epoca piccola che assomiglia a un nostos.
La memoria è seccata, in balia dell’acqua salata e dello scirocco, vento metafisico per eccellenza, in grado di immerge le persone e le cose in un tempo irriconoscibile.

Sapevamo che il mare in certi momenti smette di avere colori. È solo acqua e basta. Sulla spiaggia stavamo sdraiati all’ombra di vecchie imbarcazioni. Un odore di corde e di catrame ci ricordava che l’attesa è una forma del sacro.
pag.16

Ho scritto una volta: in Sicilia solo partendo un poeta può essere un poeta. Questo dato di estraneità e di esilio è tutto sommato riscontrabile nella gran parte degli scrittori siciliani, non solo in quelli che se ne sono andati dalla loro terra, ma anche in quelli che radicalmente hanno deciso di abitarla portandosi sulle spalle il peso di una cultura sprofondata e radicata. Perché abitare la Sicilia è l’esperienza del custodire un anfratto sfuggente tracciato su rotte immaginarie, un continente che si allontana, e anche fisicamente, da ogni idea di certezza e, in fondo, di Storia.
La scrittura di chi parla dell’isola è fatta di memorie persistentemente sfuggenti, affioranti improvvisamente come reperti umani e conati di materia: gesti ed eventi barricati dietro maschere ancestrali.

La Sicilia è sempre l’estensione di un’ora bianca che se ne sta ferma, e attende che qualcuno oltrepassi un determinato luogo, e poi arrivi vicino a una spiaggia, a una casa, per restare in silenzio, mettere da parte l’ultimo ricordo.
pag. 17

La Sicilia è in fondo come la casa in cui è nato il poeta: “ha stanze profonde. Ci vogliono giorni, a volte settimane per attraversarle”.
È il lato labirintico, orfico e iniziatico di questa terra, luogo che si attraversa senza mai conoscerlo veramente: “ammetto di non riuscire a raccontarlo questo posto” .
È, perfino, estensione della lingua:

Mia madre sta sempre all’estremità di quest’isola e non ha odori. Nella sua voce ci sono centoventinove lingue diverse. Le ho contate oggi. Quando mi chiama, non so mai con precisione chi pronuncia il mio nome.
pag. 37

Riconosco in questo piccolo capolavoro, l’eco di scrittori siciliani che mi hanno accompagnato in questi anni, soprattutto Giuseppe Bonaviri: lo stesso sentire la parola come formula magica per riconoscere le cose e, una volta nominate, riconsegnarle al vuoto da cui sono venute.

Sebastiano Aglieco


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