“Perché non ha vinto l’africano?”
Una di quelle domande che i bambini fanno così, d’improvviso, forse senza pensarci o forse sì. Una domanda come: “perché non posso giocare con le forbici?”. Quando la bambina con la quale ho guardato il finale del Campionato Mondiale U23 me l’ha chiesto, ero in macchina, stavo guidando ed era passata forse una settimana dal giorno della vittoria di Mathej Mohoric. Non è poi così facile spiegare il ciclismo ai bambini: il loro tifo è strano e sincero, chiedono chi è il primo, tifano per quello che è davanti. Ma quella domanda non era la solita. L’africano, o meglio il sudafricano, era Louis Meintjes che aveva cercato fino all’ultimo di riprendere lo sloveno Mohoric. E’ questo il ciclismo, ha qualcosa di inspiegabile che fa ricordare le piccole cose, i momenti e li fissa nella memoria. Anche in quella semplice di un bambino. Louis aveva colpito più del vincitore, la sua grinta, la sua costanza, i suoi denti stretti e le sue gambe magre tese nello sforzo, avevano fatto dire, anche a distanza di giorni: “Perché non ha vinto lui?”.
A me, Louis Meintjes ha colpito fin dalla prima volta che l’ho visto dal vivo, in bicicletta, sulle strade della Brianza, durante la Coppa Agostoni. Un ragazzino guizzante, piccolo e magrissimo che con il casco e gli occhiali gli si darebbe sedici anni. Il suo sorriso assomiglia incredibilmente a quello di Sylvain Chavanel, campione elegante e attaccante appassionato e i suoi occhi grigio-azzurri sulla faccia pulita raccontano che i suoi sono sogni veri, da uomo determinato. Il ciclismo è fatto di una cosa che si chiama “fiducia”: senza questa morirebbe. Ma non solo fiducia negli uomini o nel futuro, queste sono cose da politici, non da ciclisti. Fiducia in quello che dice la bicicletta sulla strada, nelle parole sull’asfalto che, in questo sport, sono le più vere, quelle nelle quali bisogna credere sul serio. Louis parla bene con la strada, quando si alza sui pedali è leggero, è nel suo mondo. La bicicletta, l’ha detto lui stesso, gli dà la libertà. E forse, la libertà, come la felicità, si scopre spesso per caso. Lui si è avvicinato al ciclismo per gioco, a sedici anni: alcuni amici l’hanno coinvolto in qualche gara. Poi ha capito che non avrebbe fatto l’ingegnere, come suo padre, ma avrebbe tentato la carriera dura, impietosa del ciclista. Sogni improvvisi per i quali dovremo ringraziare il Destino che li ha infilati in tante vite, carpendo le ambizioni del quotidiano.
Louis, nella stagione 2012, è volato in Europa per far parte della squadra U23 della Lotto Belisol e quest’anno è passato professionista con la MTN-Qhubeka. Sta diventando grande in fretta, in una squadra bella, affiatata, che porta in giro per il mondo l’impronta della sua terra. Ha già una medaglia d’argento ai Mondiali, una specie di promessa d’oro, è Campione Nazionale Sudafricano, al Tour del Rwanda si è letteralmente mangiato una tappa tutta in salita ed è stato nominato ciclista africano dell’anno. Il suo, di anno, è il 1992: ha solo ventun anni. Impossibile non pensare a Chris Froome che, guarda caso, è il ciclista pro che ammira di più. Louis motiva questa preferenza con le performance e il modo di andare in bicicletta ma forse, in realtà, c’è qualcosa in più. Una motivazione forte, grande, come possono esserlo solo gli esempi che non vengono indicati ma che si seguono da soli, quando qualcosa da dentro lo suggerisce. Chris era anche lui un bianco del sud, ragazzino magro e timido, nato in un luogo dove il ciclismo professionistico significava “Europa”. Chris che ha avuto il coraggio di seguire il suo sogno, di proporsi a squadre che non hanno visto, nei suoi occhi, il talento nascosto, il potenziale zittito. Chris che quest’anno ha portato la sua terra sul primo gradino del Tour de France, nel suo centesimo compleanno. Chris come Louis: perché i sogni hanno lo stesso peso, lo stesso valore, quando si ha il coraggio e la serietà di seguirli, anche da ragazzi, anche quando nessuno, a parte te, ci crede.
E’ strano Louis. Eppure ha lo stesso carattere bipolare dei campioni: prima di una gara sembra serio, lontano, distaccato, quasi a voler dire: “andiamo perché mi sto annoiando”. Al contrario, sottopelle, trattiene gelosamente l’emozione della prima volta. Al Lombardia era veramente la sua prima volta in una gara del circuito World Tour, il più giovane partecipante alla competizione. Eppure era lì, in attesa del via, senza telecamere o persone attorno. E’ partito assieme agli altri, parte del tutto e ha seguito la sua personale gara. Ognuno ce l’ha. Quella che al pubblico sfugge perché a volte è troppo impegnato a correre verso il primo arrivato. Louis si è piazzato cinquantaduesimo ma sul Sormano era vicino a Philippe Gilbert e l’emozione di un passaggio così, tra le ali di folla che si aggregano lassù, è valsa tutto. Della prima volta si ricordano i particolari: una voce, un profumo, un colore. L’insieme si perde, sfugge ai contorni. Ma i particolari rimangono, chiari e lucidi, a volte per sempre.
Louis, ragazzo dalla faccia pulita e le gambe magre, svelte, la strada parla bene di te e anche tu sai parlare a lei. Parole semplici e bici leggera: alle salite piacciono quelli che si alzano sui pedali e non hanno paura di fare fatica. Alle salite piacciono i piccoli scalatori seri e timidi che negli occhi hanno una luce che si chiama domani.