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Perché Lourdes è in realtà il film più cristiano dell’era moderna, una lucida preghiera alle sorti divine che implora nella sua impeccabile geometria, che denuncia grazie alla fragile etica smascherata, che rattrista per l’irreversibilità delle cose.
A prescindere dalle varie confessioni, le tradizioni religiose a cui l’uomo sente di appartenere e la religiosità ineffabile da cui il suo animo è pervaso e predisposto, lo aiutano in una ricerca (che a sua volta è un cercarsi) del mistero dentro lui, del sacro. Ma i dogmi, o più semplicemente il “sentire” la fede sono ormai degenerati in una ricerca che si allontana dall’ humana conditio, preferendo l’orizzonte materialista della profanità. Perciò l’obbiettivo svelatore di Jessica Hausner, novella Bernardette a cui dobbiamo credere, non si prepone di smontare la credenza in Dio, tutt’altro.
Poiché l’architrave del film è il miracolo avvenuto, allora è la speranza, e la fede in essa, ad essere il filo aureo che eleva la riflessione della regista austriaca. Ciò che si accusa è dunque quella deriva terrena, odiosamente sfarzosa nella superficialità degli oggetti in vetrina (da acquistare), che ha trasformato un luogo anonimo tra i Pirenei in una miniera d’oro.
Dove è il sacro? Non nel premio come miglior pellegrino dell’anno.
Dove è il mistero? Non dentro della comunissima acqua che al massimo migliorerà la diuresi.
Dove è la speranza? Non nelle condotte delle volontarie.
Ma questi tre spiriti hanno un luogo. Ed è Christine.
Lei sì che vive in un’attesa fatta di fiducia, a un auspicio non illusorio per cui è decisamente meglio Roma perché più culturale che l’insipida Lourdes, ad un desiderio di speranza in grado di sorreggerla. Quando i personaggi si chiedono perché un miracolo del genere sia capitato proprio a lei, non tengono conto del fatto che Christine odia – gli altri per la loro condizione privilegiata –, e ama – il bel poliziotto francese –. In una parola: è debolmente umana. Ha trovato la sua religiosità senza partecipare a messe che sembrano la succursale di Woodstock e senza palpare la superficie di una semplice roccia, piuttosto con la semplicità della sua condizione lontanissima dagli ori le ricchezze le sete, e tutte le altre cose meschine che si trovano a Lourdes.
Eppure, proprio quando ci si aspetta una definitiva svolta antropologica in grado di dare la giusta dimensione al concetto di religione, la Hausner, con la scena del ballo, inchioda letteralmente la speranza ad una sedia a rotelle che con rassegnazione sfila via dallo schermo.
Dio, ma non quello appiccicato sui santini o che pende dalle umide labbra di un prete, ha perso, perché prima di tutto a perdersi è l’uomo. Anche se un’esile Christine, e una messianica Jessica, ci dimostrano con Lourdes che la verità, qualunque essa sia, risulti totalmente “oltre” e “altra”, sebbene sia del tutto umana.
Sylvie Testud dona al suo personaggio una dignità che la fa apparire bella, non agli occhi ma al cuore. Ed è splendido, secondo me, il campo lungo nel quale viene immortalato, si fa per dire, il suo bacio. Nonostante nel film vi siano momenti più importanti, questo fa capire la delicatezza con cui la Hausner ha raccontato questa storia. Un tocco lieve, una preghiera sussurrata.
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