Sarà che non ci sono più le mezza stagioni, sarà che il caldo miete le sue prime vittime, sarà che sono sobbarcato da impegni vari oppure sarà per semplice pigrizia, magari dovuta da tutte le cose precedentemente elencate... ma ultimamente la voglia di cercarmi un bel film da vedere sta lentamente scemando. Il che è strano, perché solitamente sono sempre alla ricerca di qualcosa di particolarmente interessante da guardare o da leggere, ma in questi giorni sto attraversando uno di quei periodi di magra che, suppongo, alle volte siano proprio necessari per riprendere tutto con più energia di prima. E' per questo che l'altro giorno mi sono bellamente fidato delle offerte del digitale terrestre che, con una coincidenza mostruosa, mi ha permesso di vedere Love is all you need, pellicola che aveva fatto molto discutere all'epoca per come trattava un tema molto delicato come quello della malattia. Inoltre gli aveva dato molta visibilità anche il fatto di essere stata distribuita da un distributore indipendente, perché proprio nessuno sembrava volersi caracollare addosso il rischio di portare nelle sale una pellicola simile, dandole quindi fin da subito la nomea di film scomodo, cosa che già da sola riesce ad accendere l'interesse di molti. Non per nulla era quello il motivo per cui ne avevo sentito parlare.
Ida è una parrucchiera danese che ha appena terminato un lungo ciclo di chemioterapia e che si ritrova cornificata dal marito; Philip invece è un inglese stanziatosi in Danimarca che, dopo la morte dell'amata moglie, si è estraniato dal mondo. Il matrimonio in Italia dei rispettivi figli permetterà ai due di conoscersi e...
Nello stesso anno era uscito il bellissimo Amour di Haneke che, guarda caso, aveva avuto la medesima sorte in fatto di distribuzione. E in maniera sempre più ironica, grossomodo aveva pure lo stesso tema: quello della malattia. Diciamo quindi che il film di Susanne Bier era uscito nel momento giusto e nelle modalità giuste, qui da noi, riuscendo a caracollarsi le attenzioni che altrimenti dubito sarebbe riuscito ad avere. Ovvio quindi che in qualche maniera il tutto venga collegato, anche se involontariamente, al capolavoro dell'austriaco con la barbetta bianca, ma la cosa non è assolutamente da farsi. Questi sono due film diversissimi tra loro e che trattano il medesimo tema in maniera del tutto differente. Quindi se attraverso un ictus Haneke cercava di sviscerare il vissuto di una coppia e di coloro che gli stavano intorno, la Bier cerca di estendere un ciccinino il concetto stesso di malattia, facendole assumere varie forme, diversi significati e differenti risoluzioni. Innanzitutto, però, va ben preso in analisi cosa si può intendere con malattia. Una malattia può essere una qualunque cosa che mini alla salute di un individuo (come il tumore al seno di Ida) ma, ironicamente, la malattia ce la possiamo creare noi stessi, può essere lo stadio degenerativo della nostra esistenza dettato solo e unicamente dal nostro carattere (si veda l'isolamento di Philip). La malattia si presenta sotto diverse forme e, alla fine, tutti i personaggi dimostrano di essere ammalati, in qualche modo. Ognuno alla propria maniera e secondo diverse caratteristiche; c'è chi è ammalato di codardia e chi di un segreto che cerca di mascherare a se stesso e agli altri, mentre altri ancora a causa della propria malattia cercano solo di far fiorire i propri tornaconti. Una riflessione molto semplice ma anche molto veritiera che da sola avrebbe potuto garantire un ottimo risultato finale, ma ci sono molti fattori che minano il cammino di questa particolare pellicola. Uno su tutti, è il modo in cui viene fotografata l'Italia. Perché non è per orgoglio patriottico, e il termine fotografata non è usato a caso, ma il vedermi le classiche scene da cartolina sotto il sole di Sorrento sulle note di That's amore, con una fotografia stucchevolissima che rende ogni scena un pugno nell'occhio, ha fatto perdere gran parte della credibilità fin dall'inizio. Segue poi il fatto che alla riflessione della malattia ci sono giunto in un secondo momento, perché tutto è concentrato unicamente sulla figura di Ida, classica donna comune ma con la sua possente dignità, lasciando in sordina gran parte degli altri. E questa malattia, inizialmente così prepotente, viene persa di vista qua e là, fino a ripresentarsi verso la fine in una maniera che proprio non è riuscita a convincermi. Ma è anche quello che accade prima di quella fine (abbastanza prevedibile) a non essere particolarmente mirato, ponendo tutto il proprio apice su svolgimenti e intrecci fin troppo rodati e non sorretti dall'adeguato climax con la macchina da presa. E' più un film di interpretazioni - tutte molto ben eseguite, non c'è che dire - che di regia, ma se i poveri attori non hanno dialoghi o situazioni adeguate in cui muoversi, c'è poco da fare. La Bier non fa il porcaio, questo è indubbio, anzi, le riconosco il talento di aver trattato un tema caldo come quello della malattia con un tatto e una delicatezza invidiabili, ma la sceneggiatura del fidato collaboratore Anders Thomas Jensen (un tizio che ha collaborato col Dogma95, per dire), pur essendo indubbiamente complice di quella riuscita, non riesce ad andare oltre a quel merito. Che di per sé non è davvero poco, ma manco abbastanza, se si vuole fare i pignoli. Se non altro mi ha fatto conoscere una bellezza molto particolare come Molly Blixt Egelind.
Alla fine un film decisamente vedibile, ma che si perde in quello che vuole essere il suo messaggio. Tranquillizza, certo, ma non esalta.Voto: ★★ ½