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Tutt’ora resta difficilmente decifrabile l’eclettismo di Simon Staho che con Love Is in the Air (2011) giunge in splendida forma al suo ottavo film. Una filmografia tutta da vedere quella di un danese che non si è mai adagiato sugli allori e ha più volte scombinato le carte in tavola: qual è il cinema di Staho? La sua produzione tange in alcuni frangenti la mimesi più classica per protendersi subitaneamente negli avamposti dell’arte, rigoroso e al contempo innovatore, questo regista classe ’72 continua ad essere per chi scrive una punta di diamante del cinema odierno, e Magi i luften non è solo conferma, ma affermazione efficacissima, pellicola da esfoliare in maniera certosina per godere appieno di ogni singola sfaccettatura, cocktail scorretto versato in un ribollente calderone pop.
Se inserito nel flusso artistico dell’autore, il film è un’impennata folgorante che giunge senza alcun avvertimento: l’opera precedente, Warriors of Love (2009), si situa infatti agli antipodi con quella sua intenzionalità di navigare nel cosiddetto cinema contemplativo in continua sottrazione, lì tutto è trattenuto, qui tutto esplode. L’etichetta di musical, in realtà un’indicazione da copertina (e da locandina), non calza in modo adeguato poiché si sfugge totalmente alla concezione di tale genere per rifugiarsi in zone franche, libere, dove il pastiche musicale si abbraccia all’ironia, al melodramma, al ludus più selvaggio che diventa il manifesto dell’ostentazione, una non-riflessione sul concetto (incomprensibile) di post-moderno, un museo contro-chic ed ultra-kitsch dove il cattivo gusto è qualcosa di interrato nei protagonisti, dai loro abiti fuori contesto (un torero, una soldatessa, una madama con cappellino di carta), ai loro comportamenti trasportati al parossismo ma sempre coerenti alla scrittura: cercare di allungarsi il pene per delle auto-fellatio, presentarsi al funerale della propria madre vestito da pulcino, scoreggiare in faccia alla propria fidanzata per testare l’amore eterno. Esagerazioni congruenti al registro illogico e… logico all’unisono.
Basato su un soggetto da cui sembrerebbe difficile cavare qualcosa di buono, è nella stesura che Staho snocciola un talento giunto, forse, al compimento assoluto, e infatti mai prima d’ora aveva pescato così tanto dalla cassetta degli attrezzi. Il lavoro più considerevole viene effettuato nell’area ottica dove non si può più parlare banalmente di “luci” ma è necessario tirare in ballo effetti caleidoscopici e compagnia bella, praticamente è un continuo deflagrare di fuochi d’artificio su onde elettromagnetiche; ma non solo! L’autore usa quanti accorgimenti desidera e allora split screen, rallenti e improvvise accelerazioni si spartiscono la torta dell’editing che plasma una sintassi nevrotica a priori: piani brevissimi intagliati nei PP, scene rotolanti dove coesistono realtà e immaginazione (le parentesi oniriche sono il pulsante cuore arcobalenico), scambi surreali, sguaiati, irriverenti, stralci che se li vedesse Sion Sono si dispiacerebbe di non averli girati lui.
Qual è il cinema di Staho? Lasciamo ad altri le grigie classificazioni, qui si parla di Idee e intraprendenza, voglia potente di Fare, di misurarsi con modelli che non appartengono ex ante al proprio DNA filmico, di ricercare la meraviglia in ogni fotogramma, di firmarlo col proprio nome: qui si parla di Simon Staho, e da adesso, davvero, basta e avanza per certificare l’assoluta garanzia cinematografica.
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