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Luca Giordano, "Passa dal corpo il cielo"

Creato il 11 dicembre 2014 da Signoradeifiltriblog @signoradeifiltr
Luca Giordano,

Cos’è il cielo? O meglio, di che cielo si parla nel titolo? Non si parla certo di galassie, firmamenti, costellazioni, stratosfera, atmosfera o di zona riservata al traffico aereo. Il cielo di Luca Giordano passa dal corpo, e quindi non può essere un fenomeno meteorologico. Di che cielo parla, allora? Forse di quel luogo oltre la physis, il luogo dell’anima, il luogo della divinità.

Quel cielo contiene ciò che è celato, qualcosa che non si può vedere con occhi fisici, qualcosa di intimo che si manifesta passando da… da dove?

Qualsiasi manifestazione passa da lì.

Manifestare è rendere percepibile ciò che prima non lo era. Manifestare è dar forma, dar corpo. E tutto quanto è celato, per potersi manifestare deve prender corpo, passare dal corpo, uscendo dalla non-dimensione per entrare in dimensione.

Passa dal corpo il cielo è una metafora profonda, è il sunto della manifestazione di un mistero che ci guida nel percorso, del resto questo è la poesia: dal marasma dell’inconscio qualcosa si trasferisce nella mente e attraversa i centri nervosi fino ad arrivare alle mani per… manifestarsi…

Il cammino interiore parte dalla luce del cielo per entrare nella dimensione e nella misura, e non essere più in chi ha vissuto questa trasformazione, che ora è un codice su carta, e che chi legge decodificherà facendo un cammino inverso, partendo dagli occhi entra nella mente per poi rompere il velo, e per un attimo permettere di vedere ciò che è celato…

Luca ci vuole accompagnare in questo viaggio, e lo fa scrivendo poesie senza fronzoli, senza inutili manierismi, brevi e profonde. A volte ci sono anche delle rime, ma sono del tutto casuali, o forse volute per alleggerire il fardello di un messaggio dirompente. La scrittura di Luca Giordano è essenziale e sintetica, ed energizza la comunicazione perché, una volta raggiunta la destinazione, esplode nell’anima del lettore e lo mette davanti allo specchio delle verità profonde.

Passando dal corpo, il cielo si lascia comprimere in queste pagine, per entrare in un altro corpo e ridiventare cielo.

Del resto questa è la magia del linguaggio, l’idea diventa un codice compresso e si espande nel momento in cui arriva a destinazione. Tutta la nostra comunicazione, verbale, gestuale, scritta, visiva, musicale… vive di questo processo di compressione ed espansione. Tutta… solo che… a volte si trova chi comprime di più, e riusciamo a leggere delle poesie (ma lo stesso discorso vale per altre discipline artistiche) istantanee, fulminanti, che quando si espandono in noi prendono diverse forme e vivono di vita propria. Le leggiamo e le rileggiamo, e troviamo sempre nuovi significati… in una manciata di parole…

E a che serve usare tante parole se la sintesi è una delle maggiori qualità della poesia contemporanea, a che serve infarcire la pagina di significati quando con una pennellata di metafora ci si può lasciare andare nello Stupore?

E proprio stupore è il titolo di questa lirica…

Si muovono le foglie sfiorate dal vento.

Un lampione è nuca che s’allontana.

C’è una tristezza che toglie il respiro,

i passi ripetono un ritmo che conosco.

Alzo la testa: è meraviglia la notte.

Atmosfere, immagini, sensazioni che sono di tutti, ma che nessuno riesce a ridare, se non il poeta. Chi non si è sentito vincere dallo stupore quando, passeggiando senza meta, da solo, ha alzato la testa al cielo e… mio Dio, che bello!

Atmosfere e immagini anche nelle onde che si seguono instancabili.

Un’onda forte

Del vento di tempesta

È prima lenta

E rotolando avanza,

sale, scende

coprendo la distanza

poi maestosa alza la cresta

ed è così

che sciabordando

si sfascia la sua schiera

e arriva a riva

soltanto mormorando.

La metafora di tutte le passioni: rabbia, amore, brama, voglia, ira… cosa ne rimane quando si consuma la sua energia? Come un’onda solleva la cresta, ma poi si frange a dieci metri dalla sua fine, e il bagnasciuga è solo una carezza d’acqua e sabbia.

Chi ne è immune?

In queste poesie c’è la contemplazione della realtà come immagine dell’altra realtà, quella che passa dal corpo. Il poeta accetta le due realtà e le assimila.

E certi aspetti della realtà sono duri, impietosi.

Il libro è suddiviso in cinque capitoli, come a delineare le tappe di un percorso, una crescita che va dalla giovinezza all’addio. Non a caso la prima delle tappe non ha titolo, conta 21 poesie che contemplano la vita, la vedono intorno e la sentono dentro, riassumendola con “non s’arresta mai la vita che corre”. La tappa seconda è un momento di crescita, quasi adolescente, si intitola “mare”, e conta solo otto liriche, come il passaggio dall’infanzia all’età adulta dura circa otto anni. Il tono è pur sempre contemplativo, introspettivo, ma non c’è pietà nella crescita, e si devono affrontare le più dure realtà, si diventa grandi, poi vecchi… e il terzo capitolo si intitola “non chiamarla debolezza”, e ci accompagna per 13 liriche, un grido d’amore che dice: “arma sottile il sapere”. “Degni di un nome” ha 17 liriche che incontrano, l’altro, il diverso, e l’amore si dispiega in altro modo, dando senza chiedere, dandosi a chi, secondo noi, implora che gli si tenda la mano.

Amico down

Non uscisse quello sguardo dai tuoi occhi,

non fosse alcun difetto nel tuo corpo

non amerei di più la tua allegria.

Grato, nonostante il difetto

Fatichi ogni gioia della vita

E la godi più di quanto faccia io.

Qui c’è l’incontro con l’altro, la ricerca dell’anima dell’altro, non solo la propria, e Dio sa quanto sia difficile guardare negli occhi dell’altro, specie se l’altro è diverso.

L’ultima tappa del viaggio è “infine”, due liriche a chiusura di questo bellissimo libro, che si conclude con la promessa di un abbraccio, alla fine della strada, perché “si starà insieme oltre questi cieli”.

Claudio Fiorentini


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