«È la storia di un palazzo con sei appartamenti, i cui inquilini vengono man mano coinvolti in un intreccio. Credo che il libro non sia mal costruito. Certo, è un libro anche ingenuo ma, per quel che ricordo, contiene cose che hanno già a che vedere con il mio modo di essere».
Sono parole di José Saramago, ora nel risvolto di copertina della recente edizione portoghese di un romanzo finito di scrivere nel 1953 e consegnato a un editore che non si degnò di rispondere. A quei tempi il futuro premio Nobel era un trentenne di umile estrazione, estraneo all’élite letteraria locale e portatore sano, a giudicare dalle pagine oggi riesumate, di valori che si sarebbero potuti considerare pericolosi nel Portogallo di Salazar. Più tardi, la democrazia e il successo gli avrebbero certamente permesso di pubblicarlo, ma stavolta fu l’autore a rifiutarsi. Il libro è uscito postumo solo qualche mese fa, mentre l’edizione italiana è prevista per la prossima primavera. Si intitola Claraboia, cioè “lucernario”, e si basa sull’osservazione minuziosa e saltellante delle famiglie che abitano una palazzina della Lisbona popolare, di quelle col Tago alla finestra e le pareti sottili come carta. Uno spaccato della piccola (e piccolissima) borghesia impiegatizia e artigiana che va dal calzolaio del pianoterra alla vedova con figlie zitelle, dal commesso viaggiatore alla bella signora nubile e sensuale, assai chiacchierata perché si fa mantenere dall’amante. Non c’è personaggio, sotto il tetto vitreo di questo condominio, di cui non si conosca il mestiere o non si sappia come si guadagna da vivere; come in un film di Ken Loach o, più verosimilmente, in una qualsiasi opera del neorealismo, di cui probabilmente era intriso il Saramago di quel periodo. E non ce n’è uno che non abbia difficoltà (ieri come oggi, nel Portogallo precettato da FMI e BCE) ad arrivare alla fine del mese.
Un libro ingenuo, sì, ma con dei colpi di genio. Forse non il testo più adatto per chi voglia iniziare a leggere l’autore portoghese, ma certo una bella sorpresa per chi già lo conosce e lo apprezza, o magari per chi ci ha provato, ma non ha superato il trauma della densità espressiva e della punteggiatura non semplice del Saramago maturo. Ingenuo quando la tradizionale voce narrante, di un narratore onnisciente che spia tutto dall’alto di un lucernario, si lascia travolgere dalle ingenuità dei personaggi; geniale quando vi troviamo i segni premonitori delle opere maggiori. Si veda, ad esempio, il gusto per i dialoghi filosofici, da operetta morale, che inaugurano il dialogo stesso di Saramago con gli autori che fin dall’inizio lo hanno segnato: dallo spirito acuminato degli illuministi al nichilismo di Pessoa e compagnia eteronima, qui rappresentato dal giovane Abel, un “indifferente” alle prese con il “mestiere di vivere”, sempre pungolato dal vecchio ciabattino Silvestre, operaio repubblicano in odore di socialismo, al quale la vita ha insegnato a guardare oltre la suola delle scarpe che ripara, senza però dimenticare che l’uomo è ciò che mangia e le scarpe che porta. In fondo non fu un nichilista russo, Dmitri Ivanovich Pisarev, a dire che un paio di stivali valeva più di tutto Shakespeare? Lo ricordava, proprio in quegli anni, Albert Camus nel suo L’uomo in rivolta, saggio del ‘51.
Alla fine Abel, sempre in giro per stanze in subaffitto, dovrà trasferirsi nuovamente per evitare pettegolezzi su uno scandaluccio sessuale fra dirimpettai. Anche nella Bibbia il pastore Abele rappresenta il nomadismo che lo stanziale Caino deve eliminare per affermarsi. Qui i caini condòmini di Saramago, pur nelle loro grette miserie, già si rivelano capaci di una strana forma di coerenza, tale che anche Abel dovrà cercarsi un nuovo percorso etico, una terza via fra la sua rivolta solipsistica e l’universalismo umanitario del ciabattino. «Chi le prende, se non le ha date ancora, le darà un giorno», dice nelle ultime pagine. Forse questo Abele, che vuol smetterla di prenderle o di stare a guardare mentre altri le prendono, sta già meditando di diventare suo fratello, il ribelle metafisico dell’ultimo romanzo di Saramago, scritto quasi sessant’anni dopo. «In my beginning is my end... In my end is my beginning», direbbe T. S. Eliot.
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