Lucetta Frisa: intanto bevo un bicchiere di calore…

Da Narcyso
20 novembre 2013

Lucetta Frisa, SONETTI DOLENTI E BALORDI, CFR 2013

Occorre una forma stretta, anzi, strettissima a Lucetta Frisa – quella del sonetto – per dire di cose enormi; occorre, infatti, costringere l’infinito in qualche forma finita se si vuole catturare qualche scheggia di luce, qualche preciso e sincero sommovimento.
Qui le schegge sono i molti pensieri brevi che sintetizzano l’esperienza, momenti riassuntivi per dire ciò che è accaduto, ciò che accade, sempre, all’essere; metaforicamente, le sequenze rappresentano le improvvisazioni intorno a un tema: il dolore, la follia, il mistero, il sogno, l’inconclusione – unitamente a due passaggi a parte, più scoperti e coraggiosi, sequenza privata e sequenza dell’uscire da sè – in cui il corpo direttamente racconta le sue ferite e propone il farmaco della protezione: “subire le offese / farsi strappare abiti e voce e allo specchio / ridere dell’estremo lusso di sé”, p. 41. “Nati con le domande nelle ossa”, domande a cui si può rispondere con altre domande, con altri corollari o simboli viventi irremovibili, potentissimi: “questi occhi chiusi guardano ogni pianto / dice in silenzio il Cristo di legno”, p. 13; oppure con la parola/pharmacon, “se scrivere è tagliare la testa / al dolore fratturato tra parole – / lo curerò in un vaso di basilico / che mostri presto nuove foglioline / profumatissime”, p. 17.
La parola, insomma, non rinuncia a cantare neanche dopo che si è concluso il canto, “Ho finito di scrivere, e continuo”. Cita Amelia Rosselli Lucetta Frisa, prima dell’inizio di sequenze finali, libere, in cui i temi trattati sembrano ricomporsi in chiuse come queste: “oh sole, sole / dell’insonnia, / vieni a illuminare il mistero!”, p.63.
Ritornando alle sequenze: che cosa si può imparare dal duro mestiere di vivere? Così annota Francesco Marotta nella prefazione:”Il poeta sa che il suo canto, parto ed erede della dicibilità del mondo e della progressione razionale della voce tra le maglie di un universo che si rende decifrabile solo nella persistenza inclusiva ed univoca dell’ordine e della luce, ha bisogno di sguardi altri ai quali sorreggersi e dai quali lasciarsi guidare”. Questi sonetti, quindi, si specchiano nell’esperienza dell’essere, orizzontalmente, non verticalmente come torri di vedetta, ma per resistenza, per l’unico modo che la parola ha di raccontare, e cioè lo smascheramento di se stessa di fronte agli altri, impudica e risorgente sempre con l’innocenza e la potenza di un non nato: “solo dall’inferno del dolore sento / il serpentino muoversi di cose / umane e inumane nate già prima e oltre / il dolore e rimaste in quella ferma età / senza giorno o notte”, p. 46.

Sebastiano Aglieco
Brema, agosto 2013

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