Magazine Diario personale

Un discorso di non ampio vocabolario

Da Vivianascarinci

[Riporto di seguito alcune riflessioni emerse dalla lettura de “I margini del sogno. La poesia di Lorenzo Calogero" di Caterina Verbaro per Edizioni ETS, riflessioni sollecitate dal confronto con un carissimo amico e poeta che sta leggendo lo stesso libro contemporaneamente]

L’apparente oscurità della poesia di Calogero che per molti anni ha costituito anche un forte pregiudizio rispetto l’effettiva consapevolezza che un uomo malato potesse avere riguardo la propria poetica, è data dall’avere spostato, Calogero, un limite fisico che normalmente nessuno concepisce di poter spostare in vita. Ma questo non l’ha reso un mistico del panteismo italiano, lo ha reso una sorta di fisico dell’ulteriore per via di un empirismo pericolosissimo condotto da Calogero, come da alcuni altri poeti, in modo rigoroso e scientifico su se stessi e sulla propria esistenza. I critici di Calogero scoprono ora a posteriori e per logica, come è loro dovere, ciò che le analogie poetiche dell’uomo Calogero avevano già reso nella forma, un oggetto poetico visibile, un prodotto finito del pensiero che è mosso nella sua organizzazione interna da alcune proprietà limitrofe proprie della fisica dell’essere, le quali, per dirla come Sinisgalli scrisse quando Calogero era ancora in vita, sono “analisi portate sulle quantità sfuggenti” “indagini al limite della catastrofe”. Questo fare poetico appare oscuro solo per via della scarsa frequentabilità di quelle zone che sembrano ostili alla logica, la quale guarda al dipanarsi di relazioni date tra cose e persone come a dati condivisibili che invece nella poesia di Calogero sono semplicemente sorvolati perché ricondotti alla loro qualità di puro impedimento gnoseologico. Molti anni prima di leggere il valoroso libro di Caterina Verbaro su Calogero incontrai un saggio di Amelia Rosselli che mi parve allora molto singolare, soprattutto perché Rosselli in quel saggio oltre a una puntuale esposizione biobibliografica, si limitava a alcune segnalazioni su ciò che si dovesse fare per aiutare la comprensione di certa ossimorica esattezza calogeriana “La sua metrica andrebbe studiata nel suo evadere ogni sistematicità”. Rosselli premetteva in quel saggio solo pochissime righe cui faceva seguire il repertorio di molti frammenti dall’epistolario e alcuni versi di Calogero. Riferiva poi un dato che allora nella mia ignoranza mi colpì soprattutto: Rosselli collegava il lessico dei luoghi calogeriani a certe forme poetiche usate da Calogero comprese in un grumo specifico di anni “Mi si dice tramite un giovane medico calabrese che comincia a scrivere versi, che è d’uso vicino a Cosenza, per esempio, esprimersi a voce tramite alcuni simboli “quasi” concreti, accompagnando un discorso di poche parole monotone, cioè un discorso di non ampio vocabolario. Il Calogero diParole nel tempo si serve di identici simboli –segno e frasi che userà poi nelle quattro lunghe raccolte del 1950-60”. Sarebbe come a dire che è tutto chiaro in Calogero in quanto quell’oscurità non è che l’ombra per quello che è: ossia limitrofa, attinente e variabile rispetto il confine tracciato dalla dislocazione nello spazio di una cosa dove originariamente nasce alla coscienza, per cui esposta alla visibilità piena, e non di certo l’attributo sgargiante dell’ennesimo ermetismo con digressioni notturne che gli si è pure attribuito. Ora apprendo che questa osservazione di Rosselli che allora tanto mi colpì, nasce da una vera e propria elocubrazione di una “teoria poetica” proiettiva che secondo Verbaro, Rosselli stava elaborando su Calogero, per una sorta di bisogno interiore, e nel desiderio di proporsi come sua curatrice, cosa che purtroppo non fece in tempo ad accadere. Se oggi ci appare che l’ombra sta alle cose con la stessa ineluttabilità e precisione in cui resta “costretta” la teoria calogeriana nell’ambito della sua prassi, è anche grazie alle parole lucidissime di Amelia Rosselli, ma è troppo tardi per far sapere a entrambi che lo sappiamo.


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