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Lucia Baire e le rose che non colse

Creato il 10 agosto 2010 da Zfrantziscu
Sarà una commissione “paritetica” di studiosi e di prelati a cominciare il cammino che prima o poi porterà la lingua sarda nella liturgia, come in Sardegna già succede ad Alghero. Ma solo perché in questa città si parla il catalano e perché la Chiesa ha riconosciuto quella lingua. È stata l'assessora della Cultura, Lucia Baire, a sollevare, qualche giorno fa, la questione in una lettera all'arcivescovo di Cagliari, Mani, che le ha risposto a stretto giro di posta. Il tutto raccolto da Paolo Pillonca che ne ha parlato, con la sensibilità che lo contraddistingue, sulla Nuova Sardegna.
Come capita spesso, una persona, arrivata alla fine della sua esperienza (l'assessora non sarà riconfermata, si dice, nel nuovo governo sardo), si volta a rimpiangere le “rose che non colse”. Forse perché non le ha viste, forse perché hanno fatto di tutto per non fargliele vedere, sta di fatto che la signora Baire ha mancato molte occasioni, in materia di lingua sarda, per fare proprie le metaforiche rose che le venivano offerte. L'impiego della lingua sarda nella liturgia fu sollecitato nel mese di febbraio dal Comitadu pro sa limba sarda in un documento inviato alla stampa e, naturalmente, a chi aveva interesse a dire e fare. Nessun cenno – come si ama dire in burocrazia – di riscontro.
La Regione, per la prima volta nella storia dell'autonomia, ha riconosciuto il valore della lingua sarda (e delle altre usate in Sardegna) come motore di sviluppo economico. Ma quando si è chiesto anche all'Assessorato della cultura di provvedere a tagli nelle spese di quel “dicastero”, la prima cosa cui si pensò è di tagliare del 50 per cento il già scarso finanziamento regionale per la lingua. I giovani che lavorano negli uffici della lingua sarda fecero un sit in davanti al Consiglio regionale e su Comitadu pro sa limba sarda fu ricevuto dalla Commissione bilancio del Consiglio che all'unanimità bocciò il taglio, proprio nello stesso momento in cui l'assessora consegnava alla stampa un comunicato in cui i tagli venivano difesi.
Negli ultimi tempi è poi successo qualcosa nella Chiesa sarda. L'arcivescovo Mani ha licenziato un prete molto amato dai suoi parrocchiani, don Cugusi, che ha, fra le sue caratteristiche, quella di amare molto la lingua sarda e di condividere questa sua passione con un gruppo di intellettuali cattolici piuttosto influenti. Le ragioni del licenziamento, interne agli affari della Chiesa e su cui non è lecito discutere, si sono mescolate con il sospetto diffuso che monsignor Mani non ami particolarmente il sardo. Sta di fatto che, con cinque mesi di ritardo, l'assessora ha colto la rosa offertale dal Comitadu pro sa limba sarda.
Così come ultimamente si è data da fare con l'insegnamento del sardo (del gallurese, del tabarchino, del sassarese e del catalano) nelle scuole. Poca roba, 50 mila euro, ma un buon segnale di attenzione tardiva. E, in altri campi di sua competenza, ha mostrato le unghie nella questione delle statue di Monti Prama. Basteranno questi atti di resipiscenza identitaria a confermarle la fiducia del presidente della Regione, in pieno agosto impegnato a ridisegnare la sua compagine governativa? Solo lui e i suoi alleati lo sanno. Quel che, a mio molto modesto avviso (ma questa è la richiesta del Comitadu pro sa limba sarda), dovrebbe succedere è che le competenze in materia della identità siano assunte direttamente dalla Presidenza della Regione. Perché le governi, come altrove succede, a mezzo di dipartimenti retti da persone competenti e non piegabili alle misteriose vie di una burocrazia che, spesso, ha l'unica aspirazione a auto conservarsi.

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