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Lucia Bonanni a fondo nella poetica del palermitano E. Marcuccio

Creato il 25 ottobre 2015 da Lorenzo127

TRE POESIE DI EMANUELE MARCUCCIO

Una lettura a cura di Lucia Bonanni

Cover_front_Anima di Poesia_originale_900Le poesie di Emanuele Marcuccio “Mare della Tranquillità”, “Di seta” e “Per una strada” per il loro costrutto e i loro contenuti necessitano di una lettura accurata e di uno studio approfondito. Sintetiche ed essenziali nella forma come nella sintassi, sono dense di significati nascosti che occorre ricercare nello stile come nelle diverse possibilità di senso che si offrono all’analisi testuale. In tali componimenti si denotano continui richiami e rimandi ad altre liriche dell’autore in una circolarità espressiva che lega i versi, letti ed elaborati in maniera del tutto originale. Volendo stilare un’analisi comparata, c’è da dire che l’impalcatura di tali componimenti poggia su riferimenti culturali ben precisi, quelli della cultura classica secondo la quale lo stesso autore con destrezza e disinvoltura fa uso tanto degli aggettivi sostantivati e le licenze poetiche quanto delle figure retoriche, compresi gli spazi bianchi, che delle mappe concettuali e dei campi semantici. Come fa notare Luciano Domenighini, quelle di Marcuccio sono «liriche “cosmiche”», liriche che sanno toccare le corde dell’interiorità, che solcano l’animo e lasciano tracciati di riflessione e completo abbandono alla catarsi. Seguendo il dettato logico delle categorie grammaticali, si possono seriare verbi, sostantivi e aggettivi, disposti in ordine non casuale, come possiamo evidenziare una tassonomia di quelli che sono i vari complementi e le varie figure concettuali. Efficaci i verbi di movimento che conferiscono alla scrittura dinamismo espressivo, modalità che va a creare connessioni logiche con aggettivi e sostantivi che danno il senso dell’ampiezza e di superficie mentre altre forme portano al componimento levità, grazia e leggerezza. La matrice concettuale su cui si snodano i versi, è quella dei contrari, dell’ossimoro, della sineddoche e della metonimia in accezione quantitativa e qualitativa senza dimenticare l’apocope e le licenze poetiche. Luogo caro al poeta è la strada; la strada con le sue moltitudini e le sue solitudini, i suoi passi svelti e il suo andare silenzioso, la vucciria[1] affollata dei mercati e le voci disperse, i bordi multicolori e le fronde sfiorite. È per strada che l’autore maggiormente si sofferma ad osservare, a riflettere, a trarre ispirazione, a fermare la scintilla creativa su uno scontrino della spesa oppure in piedi su un autobus di città. “Sul selciato profondo”, “Perché la tue strade stridono luttuose”, “Per una strada d’un’alba d’autunno”, “Vecchie strade”, “Per una strada”, ma io direi anche “investe il verso” che dà quasi l’idea che il verso sia un pedone investito dalle parole in corsa, “verga/ veloce il rigo” in cui sembra vedere un passante trafelato che corre verso chissà quale meta.

Tien la luna vecchie strade

a separar gli ammassi oceani

alla superfice

mari la solcano

in prosciugata tranquillità

In “Mare della Tranquillità”[2] l’attacco verbale “tien”, scritto in apocope, rende il verso snello e leggero il cui soggetto è la luna con le sue “vecchie strade”. Quell’aggettivo “vecchie”, che potrebbe sembrare scontato e persino banale, è il perno su cui ruota l’eterna annosità del satellite. In legame covalente col primo, il secondo verso si apre con un’altra forma verbale in apocope “a separar” cui segue un’espressione eccellente, “gli ammassi oceani”. Se l’autore, come scrive nella lirica “Carpe”, avesse usato l’aggettivo ammassati, non avrebbe raggiunto né originalità espressiva e neppure sarebbe riuscito a catturare l’attenzione del lettore. Quell’aggettivo che volge in sostantivo, pone sulla carta l’idea di un qualcosa di compatto, di un qualcosa ammassato con acqua e terra. La staticità è sovrana sulla “superfice” degli oceani, qui intesi non tanto nell’accezione del termine, ma nella vastità dell’ambiente, un’area astronomica, quella della luna, dove ci sono mari che la solcano “in prosciugata tranquillità”. Il verbo solcare è proprio dei natanti che lasciano dietro di sé una scia spumeggiante, ma è proprio anche del lavoro dei campi dove si vedono gli aratri tracciare solchi nella terra. Il sostantivo mare richiama l’idea dell’acqua mentre l’aggettivo prosciugata, participio passato del verbo prosciugare, si connota nel significato di asciutto, di siccità, di secco e desertico. La contrapposizione che sorge tra i due termini, forma un ossimoro che va ad incidere sul sostantivo tranquillità, allargandone il significato anche nel senso di silenzio e quiete.

di seta

la parola

 

di poesia

l’anima mia

 

investe il verso

e para

i colpi

 

verga

veloce il rigo

leggero

 

pieno

Il poeta palermitano Emanuele Marcuccio

Il poeta palermitano Emanuele Marcuccio

Ad apertura della lirica “Di seta” originale e ben calibrato il complemento di materia che nel dipanarsi dei versi va a confluire in quello “di poesia” in modo che la parola sia così lieve e leggera da essere di serica essenza mentre l’anima si eleva e si libra, divenendo di poesia. Ma alla stregua di un tessuto di seta la parola sa essere forte e tenace e nella sua corsa sulla pagina bianca crea il verso e riesce a parare i colpi che giungono dall’esterno. Così, onde evitare che l’ispirazione possa svanire nella modulazione dell’attimo, riempie veloce il rigo che è al contempo “leggero e pieno”; leggero perché l’anima ne è rasserenata e pieno perché le sillabe danno corpo ad ogni singolo verso. Qui la parola rigo, parte per il tutto, sta ad indicare anche il foglio bianco che talvolta incute timore mentre il verbo vergare può essere assimilato col verbo arare ed è un’azione forte, decisa, veloce, ma ferma, quella che compie la mano nel riempire il rigo di sillabe e suoni. I due aggettivi leggero e pieno, intercalati dallo spazio bianco, sembrano formare una scia spumeggiante mentre i riverberi di luce guizzano e saltellano tra uno spazio e l’altro. Con i due distici, le due terzine, e il verso formato da una sola parola, il tutto separato dalla pausa, il componimento sembra essere un sonetto caudato, rivisitato in chiave moderna. L’uso del verso isolato e formato da una sola parola, è abilità di Marcuccio che sa forgiare neologismi assonanti fino “all’invero limite” della prassi poetica anche con l’uso sapiente della lingua latina.

Per una strada senza fronde

si aggira furtivo e svelto

il nostro inconscio senso,

passa e non si ferma,

continua ad andar via

e non si sa dove mai sia.

Determinante nel componimento “Per una strada”[3] è l’articolo indeterminativo “un” anteposto alla parola strada. Come ho già avuto modo di scrivere, se Marcuccio avesse usato l’articolo determinativo, l’intero componimento avrebbe perso quell’aura di mistero e indeterminatezza che lo distingue e lo rende enigmatico per cui il lettore è portato perciò a domandarsi di quale strada possa trattarsi e in quale luogo la stessa strada sia collocata. Potrebbe trattarsi di una strada cittadina come di una strada di campagna, di un tratturo di montagna o di un percorso della via Francigena. Anche le fronde, come la strada, sono elemento ricorrente nella poetica di Marcuccio e in certi casi assumono una connotazione diversa dal significato intrinseco della parola. La strada è luogo privilegiato nei versi del poeta e prende le sembianze di luogo dell’anima, di spazio interiore, di topos emotivo, di cellula di identità, un sito di memorie in cui l’inconscio si muove a passo svelto, guardingo, timoroso persino di essere scoperto. Pertanto non staziona, non si adagia, non si ferma, ma continua la propria corsa verso qualcosa di indefinito e di infinito, simile ad un Kairos fuggente che neppure Cronos riesce a fermare. Dal canto suo l’autore non può far altro che prendere coscienza di questo stato aereo che sfugge e sguscia via, lontano dalla penna che vorrebbe trattenerlo sul rigo e spesso non lascia traccia del suo passaggio e alla fine “non si sa dove mai sia”. Le rime a fine rigo, anche le più dotte e articolate, non fanno parte della poetica di Marcuccio che, pur amando la musicalità dei versi e la fluidità della scrittura, affida i suoi componimenti alle armonie imitative e alle figure di suono, facendo leva sui traslati e le altre figure di significato. Il lessico sempre molto ampio e ben ponderato, è base di ciascun dettato poetico e ne integra il valore compositivo che risulta sempre essere fresco e spontaneo. Si palesa così la continua ricerca dell’essenzialità e della sintesi in cui spesso è assente l’uso della punteggiatura metre gli “a capo” vanno a formare pause e cesure. “Ermetismo cosmico” è la formula coniata da Luciano Domenighini per descrivere il “modus poetandi” di Marcuccio: “Ermetismo” perché il nucleo poetico è al contempo sintetico e codificato, “Cosmico” perché si inoltra in una dimensione cosmica e ultraterrena. Come scrive lo stesso Marcuccio (citando Proust) in “La parola di seta”[4], rispondendo alle domande di Lorenzo Spurio, “Ogni lettore, quando legge, legge se stesso” ed io nei suoi versi ho ritrovato frammenti del mio sentire, fronde della mia anima che per strada raccoglie pensieri e si spinge fino ai limiti del reale per ricercare tranquillità. La sua poesia è un qualcosa di straordinario che riesce a destare meraviglia e ad interessare alla lettura. È un respiro ampio di vita che “ci spinge a ricercar nuovi lidi, dove far approdare questo inquieto nocchiero che è il nostro cuore”[5].

Lucia Bonanni

San Piero a Sieve (FI), 24 settembre 2015

[1] In siciliano, confusione, baccano; dal cui termine prende nome il famoso mercato palermitano.

[2] Emanuele Marcuccio, Anima di Poesia, TraccePerLaMeta Edizioni, 2014, p. 38.

[3] Emanuele Marcuccio, Per una strada, Ravenna, SBC Edizioni, 2009, p. 77.

[4] Lorenzo Spurio, La parola di seta. Interviste ai poeti dʼoggi, Sesto Fiorentino (FI), PoetiKanten Edizioni, 2015.

[5] Emanuele Marcuccio, Pensieri minimi e massime, Pozzuoli (NA), Photocity Edizioni, 2012, p. 15.



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