Lucio Gobbi sul sito di “Italianieuropei” offre un’analisi indolore della nostra “economia che appassisce”. Questo astuto signore non vuole polemizzare troppo con i governi nazionali e nemmeno fustiga gli imprenditori. Che invece hanno anche loro grandi responsabilità, oltre ai megastipendi e alla grande evasione fiscale, alla corruzione, che difficilmente è attribuibile al ceto medio basso.
Il problema peggiore è la mancanza di creatività, o almeno di fiuto. In Italia, è noto, non si inventa più nulla di buono per l’economia e le politiche fiscali e del lavoro puniscono in modo ossessivo il potere d’acquisto del ceto medio-basso. Che fanno i grandi imprenditori coi loro capitali, oltre a finanziare giornali nazionali ben allineati, squadre di calcio, lucrare posizioni di rendita e orrori del genere? I modelli maggiori? Berlusconi, Marchionne… No comment. Le piccole imprese non hanno avuto sostegno.
Gli economisti misurano il grado di salute e di solidità di un’economia sulla base degli indici di crescita. Purtroppo, l’analisi di tali indici per il nostro paese ci consegna un quadro a dir poco desolante. La profonda crisi che l’Europa sta vivendo, inoltre, non ha fatto altro che aumentare la pendenza del piano inclinato su cui ci troviamo da oltre trent’anni. Per sintetizzare il declino italiano basta evidenziare che dalla metà degli anni Settanta ad oggi abbiamo perso un decimo di punto di crescita pro capite ogni anno, con un notevole peggioramento negli ultimi anni (picco del –6% nel 2009). Ma quali sono i motivi dell’indebolimento continuo della nostra economia? Ovviamente le cause sono molteplici e vanno rintracciate sia all’interno del nostro sistema istituzionale sia nella peculiarità della sua struttura produttiva.
Dal lato dell’offerta bisogna segnalare una perdita di efficienza relativa alla produttività del lavoro e, seppur in misura minore, relativa al capitale. Tale perdita di efficienza ha prodotto una progressiva diminuzione di quote di mercato da parte dei nostri operatori sia sui mercati esteri che su quelli nazionali. Le principali cause di tale fenomeno variano dalla mancanza di investimenti a un’allocazione inefficiente della spesa pubblica, oltre che a un sensibile peggioramento della qualità dell’istruzione italiana e all’inefficienza organizzativa dello Stato.
Gli investimenti sono ineludibili in un’economia che si avvicina alla frontiera tecnologica la quale, per crescere, deve necessariamente innovare. La vicinanza alla frontiera tecnologica implica inoltre un cambio nella tipologia di investimenti da intraprendere. Oggi sono necessari investimenti immateriali che per loro natura richiedono ingenti risorse finanziarie e il cui ritorno in termini di profitti è molto aleatorio. La piccola dimensione e il carattere familiare delle nostre imprese sono il freno principale a questo tipo di innovazione. Da non trascurare è anche la difficoltà nel reperire il credito necessario per intraprendere tali piani di investimento. Durante la crisi questo fenomeno si è accentuato sensibilmente. E, infatti, in una fase di incertezza oltre che di scarsi profitti sono pochi gli imprenditori in grado di autofinanziare processi innovativi. In loro soccorso dovrebbe intervenire il sistema finanziario, in questo momento però raramente si può contare su fonti esterne di finanziamento data la scarsa diffusione di venture capital e di fondi di private equity, e considerato il credit crunch causato dalla fuga di capitali esteri che nel 2011 ha colpito il nostro sistema bancario oltre che l’incertezza sull’andamento della domanda futura.
Per quanto riguarda la spesa pubblica bisogna dire che questa non è eccessiva, le uscite dello Stato sono infatti in linea con quelle degli altri paesi dell’Europa continentale. Quello che manca, piuttosto, è un intervento da parte dello Stato a sostegno dell’innovazione e una politica industriale in grado di trainare i settori con maggiori potenzialità i quali, a causa della nostra struttura produttiva, non riescono a crescere.
Da sottolineare sono invece gli sprechi di risorse che la riforma del Titolo V della Costituzione ha portato con sé, i quali vengono finanziati dalla fiscalità generale che grava principalmente sul lavoro dipendente. Negli anni successivi a tale riforma, infatti, si sarebbero dovuti prendere provvedimenti in grado di limitare le spese nei gradi amministrativi minori, ma tali interventi non hanno mai visto la luce.
Grande importanza per la crescita e per la produttività del lavoro ha l’istruzione. Gli indicatori europei ci segnalano un sistema scolastico italiano (scuole medie superiori) che al Centro-Nord riesce appena ad agganciarsi alla media europea mentre al Sud rivela una tra le peggiori performance europee. Anche l’università non se la passa bene: il numero delle persone laureate e il numero degli atenei per abitante è inferiore alla media europea. Nonostante il numero di laureati sia basso, le nostre imprese non risultano in grado di assorbire competenze e, quand’anche ci riescano, il carattere familiare del management ne limita le possibilità professionali e di carriera alimentando il fenomeno della “fuga dei cervelli”.
Il lato della domanda non è meno significativo di quello dell’offerta. Negli ultimi decenni abbiamo assistito a un allargamento della forbice sociale e a una diminuzione del potere d’acquisto dei redditi medio bassi. Questo fenomeno, data l’alta propensione al consumo di queste fasce di popolazione, ha portato a un indebolimento della domanda aggregata e, di conseguenza, a una diminuzione nella crescita del PIL. A causa delle caduta di domanda le imprese non export oriented si sono trovate con una capacità produttività sottoutilizzata, fenomeno che ha sensibilmente diminuito la spinta all’intrapresa di piani di investimento. La riduzione della diseguaglianza è perciò una condizione necessaria per la ripresa della nostra economia e per creare un incentivo all’investimento.
Riagganciare la crescita è vitale per il nostro paese, a tal fine è necessario un impegno della politica e di tutte le componenti della società civile.
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