Lui, lei e il ruolo di cura
Posted on 20 maggio 2013 by Alessandra Lui, lei e il ruolo di curaStavo leggendo il post “La marcia in più” del blog di Loredana Lipperini, scritto in risposta ad una infelice affermazione di un personaggio politico, e
Dovrebbe bastare quell’83% per far riflettere i fautori del pannolino lavabile e del detersivo fatto in casa: non per demonizzarli, ma per capire su chi ricadrà davvero la scelta della felice decrescita. Perché è molto interessante leggere i dati Istat che riguardano la tipologia di attività in cui donne e uomini sono impegnati. Le prime, infatti, non possono esimersi dal cucinare: in un giorno medio si trova davanti ai fornelli il 90,5% delle occupate e il 97,8% delle non occupate. Anche le attività di pulizia della casa impegnano l’82,7% delle occupate, per arrivare a quote del 94,8% tra le non occupate. Le attività di apparecchiare/sparecchiare e lavare i piatti sono svolte dal 66,3% delle occupate e dal 76,5% delle non occupate….] Dietro quelle cifre e quelle informazioni, così abilmente sintetizzate c’è tutto un mondo di lavoro, frustrazione e fatica quotidiana, completamente sommerso. Dopo aver metabolizzato le percentuali riportate, ho iniziato a chiedermi come ho fatto a diventare un elemento di queste statistiche. Ho vissuto per tanti anni da sola, ho conquistato la mia indipendenza, ho conseguito una laurea di tutto rispetto che mi ha permesso di entrare nel mondo del lavoro senza grandi difficoltà, ho viaggiato anche da sola per il mondo e poi ho deciso di mettere radici. A quel punto qualcosa è successo, senza che me ne rendessi conto, quella che era la mia reggia è diventata la mia gabbia. L’organizzazione della mia vita, un tempo semplice e flessibile si è irrigidita ed è entrata in una routine alle volte soffocante. Ho perso la libertà di raccogliere un invito al volo a partire o a fare qualsiasi altra cosa per concedermi il piacere di tornare a casa e trovare prima due, ora quattro, braccia aperte che mi aspettano. Ma quando oltre alle braccia aperte trovi anche due bocche che ti aspettano per essere sfamate, mi viene da pensare che ci sia qualcosa che non vada. Non voglio far partire il solito discorso del “qui faccio tutto io, perché nessuno mi aiuta?”. La domanda che mi sono posta è più sottile. Cosa ho fatto per scivolare piano piano in questa situazione? Come siamo arrivati, da un obiettivo di divisione dei compiti casalinghi al 50%, all’inizio della convivenza, ad un simile sbilanciamento?
L’indipendenza è di entrambi ma il compito gestire la cucina è essenzialmente mio. La gestione della cucina è forse uno dei più pesanti, perché comporta l’organizzazione della dispensa quindi la spesa e la pianificazione dei pasti. Certo potremmo mangiare pizza, pasta e scatolette di tonno, ma perché devo trattarmi male quando prima non lo facevo. La cena è anche il momento in cui ci si ritrova e sarebbe bello farlo davanti a qualcosa di sano e appetitoso. Ma non mi va di prepararla sempre io. Mi piacerebbe, dopo una giornata di lavoro di tornare a casa ed avere qualcuno che per una volta si prende cura di me, e non il contrario. Eppure al momento funziona così. Il mio compagno si sente un eroe perché ogni tanto prepara un piatto di pasta al sugo o una fettina di carne in padella. Certo, lui si paragona al milione di uomini che in cucina entra solo per sedersi a tavola quando è pronto, ma non è certo questo il mio standard di confronto! Io invece cerco di capire quali siano i reali motivi che possono impedirgli per 182 giorni l’anno di occuparsi dei pasti. L’unica risposta che sono riuscita a trovare è che NON NE HA VOGLIA. Non gli interessa cucinare: è una perdita di tempo! Rispetto a cosa? A cose più importanti. Anche il mio emancipato compagno è un sostenitore della divisione dei compiti sbilanciata. La spiegazione è che io so farlo meglio. Ma se in una cosa non ti applichi nemmeno un po’ chiunque sa farla meglio!
E’ un maledetto circolo vizioso. Come uscirne?
Ci penso da tanto. Potrei semplicemente smettere di farlo, ovvero di cucinare, ma rischio di patire la fame anche io; (magari potrei farlo prima della prova costume). Oppure potrei utilizzare la regola “il primo che arriva, cucina” e cercare di arrivare a casa sempre per ultima, ma anche questo metodo mi penalizzerebbe un po’e penalizzerebbe anche mio figlio (certo però gli potrebbe servire da esempio per il futuro). Potrei anche usare la tecnica della comunicazione non violenta, cercando di spiegare quali sono i miei bisogni rispetto alla gestione della casa e perché devono essere soddisfatti, ma dovrei trovare una persona interessata a ascoltarmi e soprattutto a soddisfare il mio bisogno di equa collaborazione. Una cosa è certa. Una soluzione va trovata. Si, perché queste statistiche me le sento tutte sulle spalle e non si modificheranno mai fino a quando ognuna di noi, nella propria casa, non sperimenterà un metodo alternativo di gestire la cura, che spinga la coppia ad una divisione equa dei compiti. Non c’è un motivo genetico o biologico che provochi lo sbilanciamento: è semplicemente un fatto culturale e prendere coscienza dei comportamenti che mettiamo in atto, anche noi donne, quotidianamente, per accollarci più del 50% dei lavori, è il primo passo da fare.
Poi possiamo trovare il modo per delegare qualcosa, per gradi, per poi arrivare ad una gestione congiunta in cui entrambi sanno cosa devono fare e come, in maniera intercambiabile.
Così la casa non sarà più il regno della donna e ci sarà più tempo per se stessi.
Ma quante di noi sono disposte a “mollare” questo scettro? Essere la regina di casa per molte, anche incoscientemente, è un modo per sentirsi indispensabili ed è una carta da giocare nella negoziazione affettiva.
Quante sono disposte a smettere di identificare nella società, nella politica o nella cultura la causa di questo sbilanciamento senza poi fare niente di concreto per “riequilibrare” la situazione nelle proprie mura domestiche, aspettando che il cambiamento arrivi da fuori?
Quante, nel momento in cui decideranno di agire, sono disposte a sentirsi accusare, anche in maniera velata, di essere cattive madri, compagne, mogli, perché si viene meno al ruolo di cura? Quante manterranno il punto, anche di fronte ai tentativi, spesso provocatori e infantili, di farci tornare sui nostri passi?
Ma non ci sono altri metodi, ahimè, per arrivare ad una vera equa divisione dei compiti di cura.
La difficoltà di questo cambiamento, secondo me, sta nel fatto che è un processo che spaventa non solo chi lo subisce, perché dovrebbe accollarsi metà di lavori “da donna” e sprecare il proprio tempo in cose così poco gratificanti, ma anche chi lo attua, perché mette in discussione il proprio ruolo secolare di cura, per fare spazio a tempo che ci permetterebbe di misurarci in ambiti nuovi, conquistando quel potere, che tanto bramiamo ma che infondo un po’ ci spaventa.
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