La prima volta che sentii parlare di Pier Paolo Pasolini ero un adolescente. E non fu nessuna citazione polemica, né i film controversi, né "i ragazzi di vita", né il mistero sulla morte né tantomeno lo stigma della sua omosessualità. Il mio primo incontro con PPP si chiama Scicli, o meglio Chiafura.
Nel 1959 Pasolini, insieme ad altri intellettuali "romani" come Carlo Levi e Renato Guttuso, fu invitato a Scicli dal Pci per verificare le condizioni di vita inaccettabili di chi ancora abitava nell'area rupestre di Chiafura, insediamento risalente al XII secolo, sotto il colle di San Matteo (nome che certamente a Pasolini evocava qualcosa...). PPP si mise alla testa di un movimento d'opinione che riuscì a condizionare in qualche modo anche la politica nazionale, che infatti legiferò affinché la popolazione aggrottata di Chiafura (oggetto peraltro di non poca discriminazione) fosse trasferita - anzi, sfollata - nel quartiere periferico del Villaggio Aldisio, oggi Jungi. E così sorse un intero quartiere di case popolari, dove attualmente vive una porzione numerosa della popolazione sciclitana. Dove si trovano lo stadio della città, un palazzetto dello sport, le scuole principali (compreso il "mio" liceo Quintino Cataudella). In quello stadio, il "Ciccio Scapellato", mio padre vide una volta in concerto Fabrizio De André...
Un quartiere popolare, dunque, molto vivo. Ma un posto che assunse presto i profili del ghetto, per la povera gente che fino a poco tempo prima viveva nelle grotte annerite di Chiafura.
Pasolini trovava vergognoso che nell' Italia del boom, nel Paese che si auto-convinceva di essere sulla strada dello sviluppo (ma non del "progresso", avrebbe causticamente notato lo stesso Pasolini), in un angolo periferico e dimenticato decine di sottoproletari vivessero in luoghi che assomigliavano più a stalle che non a case. Ai tempi del liceo feci un giro a Chiafura, che ora è un parco archeologico. E lì ripensai alle parole e allo sconcerto di Pasolini. Ma poi - ed è così, purtroppo, che oggi vorrei ricordare Pasolini a quarant'anni dal suo omicidio - provai sconforto, perché la grandezza dell'intellettuale va a scontrarsi sempre, in questo Paese, con i pasticci della politica, della stessa politica che, fingendo di accontentare l'appello accorato degli scrittori e degli artisti accorsi tra le grotte di Chiafura, finì per soffocare il tutto in un finto sviluppo.
Lui ci provò, sempre. Quando fallì, forse fu perché quell'Italia non lo meritava.
Quella Scicli, quella Chiafura, non era certo un paradiso, ma neanche un inferno. Era una "specie di montagna del purgatorio"; una labile speranza, forse, ancora c'era. Parlando della Sicilia orientale, Pasolini disse "qui il barocco pare di carne...". Di questa espiazione, fisica e non solo spirituale, così scriveva ( Vie Nuove, 22 maggio 1959, pagina 29):
Piombati da Roma a Catania, da Catania a Scicli, attraverso cento e più chilometri di Sicilia verde; deserta, araba, greca, gesuitica, coperta di fiori e di pietre, con mucchi di città incolori, raggrumate, senza periferia, come le città dei quadri, sui fronti delle colline, nelle vallate - un gruppo di gente era ad aspettarci nella piazzetta giallognola di Scicli. [...] Eravamo nell'ultimo angolo della Sicilia, ancora un po' di campagna, carrubi, mandorle, villette estive di baroni, poi il mare, il mare africano. [...]
Che cosa dovevo vedere a Scicli? E cosa invece ho visto? È presto detto. Le caverne: immaginate una valletta, dentro la quale, compatta si sparge Scicli: senza periferia e case moderne; un po' fuori, un enorme cimitero, un enorme ospedale, tutto color giallo-rosa, cadaverico; al centro la piazzetta e la strada barocca, dei baroni, dei gesuiti. Da questa vallata si diramano, tutte dalla stessa parte, altre tre piccole valli, dalle pareti quasi a picco, bianche di pietre: da lontano non si nota nulla: ma salendo per sentieri che sono letticciuoli di torrenti; sopra le ultime casupole di pietra della cittadina, si sale una specie di montagna del purgatorio, con i gironi uno sull'altro, forati dai buchi delle porte delle caverne saracene, dove la gente ha messo un letto, delle immagini sacre o dei cartelloni di film alle pareti di sassi, e lì vive, ammassata, qualche volta col mulo.
In cima alla valle centrale, Chiafura, c'è un castellaccio diroccato, e una vecchia chiesa, giallo-rosa, barocca, gesuitica, distrutta da un terremoto e piena di erba. Da lassù in alto potei vedere tutta Scicli. Come un vecchio giocattolo, sul calcare, la città di uno scolorito ex voto. Nella piazza affollata di uomini neri, solo uomini, stavano facendo un pazzesco girotondo alcune giardinette della Dc, urlando slogans in polemica dagli altoparlanti. [...]
Visto così, da lontano e dall'alto, Scicli era quello che si dice la Sicilia. Una comunità di gente ricca di vita, compressa, atterrita, deformata da secoli di dominazione, che troppa intesa a succhiarne il sangue, non ne ha potuto succhiare la vita: e l'ha lasciata viva, e quanto viva, a soffrire, a dibattersi, a uccidere, anziché a operare, a pensare e a amare. Quanto al resto, al ritmo intimo e quotidiano della vita, ben poca differenza mi pare ci sia con un paese ciociaro o magari piemontese. La storia italiana e quella siciliana, tutto sommato si equivalgono. C'è una sostanziale differenza tra i Savoia, i Papi e i Borboni? Qui, a una repressione certo più disperata e massiccia corrisponde ora un risveglio più stupefatto e clamoroso. Ed è questo ciò che ho visto a Scicli. [...]