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Luigi Manzi: io traccio un segno dove tu sei

Da Narcyso

Luigi Manzi, FUORIVIA, Edizioni Ensemble 2013

Quasi immediato, per consonanza di sviluppo, e cioè la rinuncia al viaggio e alla ricerca, è il richiamo al viandante di Hölderlin.

Raggiungimi, dunque. Qui si tocca il cielo stellato
e il richiamo della ghiandaia pulsa ininterrotto.
A notte alta viene l’eco del cane forestiero
che al fondo delle valli insiste e s’arrovella.

Forse sei in cammino. Ascolto il suono dei passi sul selciato
rimandati dall’andito.

Resto in attesa. Nel buio gelido risuona
il canto liquefatto del viandante che si ferma all’angolo
e al tuo somiglia; eppure tu sei altrove
e lui, per darmi ristoro,
a poco a poco s’addormenta, lascia che la melodia
si stemperi sulle labbra
e lenta
si disperda.

p. 7

PREMIO-MATACOTTA
Qui il doppio passo è segnato dalla natura di realtà/eco, naufragare dell’una nell’altra fino a che non rimanga la consistenza dolce amara di una melodia, di un canto.
Ed è un prologo, questo, che prepara la descrizione di paesaggi af/franti, spesso visti nella calura della piena estate e in cui niente si muove. In cui le creature senzienti e non senzienti vengono mostrate nell’atto di resistere alla morte, o forse alla stessa vita, mentre l’uomo compie gesti di resistenza in un clima di lentezza, di immobilità, di fatica.

Nel marasma dei cocci
il clangore dell’anatra
rinnova il ricordo.
Torno indietro, mi spingo
all’estremo. Al di là del dirupo
l’oliveto separa le case.
Nella calura la siccità
sfarina gli anfratti, sfalda le pietre.
Mio padre siede all’ombra del sorbo;
carica di verderame
la macchina a pompa.
Di fronte alla pergola di lillà
ora si guasta in putredine.
Rivedo la massa dei bufali
arrampicati sopra la cava,
a rodere l’erba purpurea
che circonda gli stecchi
fra le stoppie affilate.
Io sono qui, nell’afrore del giorno,
ridotto in carcassa.
La corrotta città fumiga
senza un foro sui muri,
e nemmeno orizzonte.

p. 13

Sono campagne, ma anche città, periferie bloccate dall’arsura e da una innata tendenza a scomparire, a sgretolarsi, a ridursi a immagini scheletrite, e dunque fotografate in un bianco e nero squillantissimo in cui i pochi particolari in movimento finiscono per assumere la consistenza di una piccola epopea. Ancora un esempio:

La calce si sgretola. La serpe
rotola dalle crepe della muraglia.
La siccità solidifica crete,
scava occhiaie -

Sul pianoro sbiancato
una capra erratica
bela, diffratta nell’acqua
dell’ultima pioggia.

p. 21

Silenzio, dunque, che accoglie soprattutto i dormienti, gli esseri che si sono fermati per sempre, particolari, essi stessi, di un paesaggio.
Questo viandante che passa e non sa dove andare, è dunque un ospite, profondo conoscitore di spazi descritti ad occhi chiusi, uno che si aggira circolarmente intorno alle città ma che non può visitarle; resta lungamente sulla spiaggia in preda al fantasma che lo seduce, a osservare i movimenti di un bambino che con la sua radiosa ignoranza gioca con l’effimero, e cioè con quel contropensiero del tutto naturale in grado di mettere in discussione la sontuosità della creazione. Atto ironico, esso stesso, della creazione.

L’onda rutilante del mattino
annuncia nel frastuono ogni risveglio.

Tu resti lungamente sulla spiaggia, a occhi chiusi:
in braccio al fantasma che ancora ti seduce
- anima e corpo -
e ti possiede.

La bocca trema sottomessa.
Ti stordisci sopra il vizio caldo della sabbia,
ti scopri senza tempo.

Nel capitombolo un bimbo corre a perdifiato,
t’investe, si volta, sorride dispettoso
e subito s’immerge dentro l’acqua. L’effimero,
mentre tu riapri gli occhi,
è già parte del mare.

p. 27

L’ estate si presenta come la stagione che più invita al depauperamento, allo squartamento calmissimo dell’essere, del suo regale vestito; nel mattatoio: “- Nel mattatoio il faccendiere esulcera l’osso / col bianco della potassa – “, p. 28.

Il poeta ritorna nel luogo dove un tempo era già stato: il paesaggio di una campagna, di una infanzia, dove “l’infanzia solitaria è un dono / riservato agli umili che dormono / in cima ai pagliai”, p. 35; dove “gli uomini lungo l’erta spronano i cavalli; / aizzano i cani che mordono i garretti”, p.34; dove la lingua si fa ricercatezza sonora e precisione sinestetica, ma anche favola, piccola epica topografica di nomi antichi, memorie.
Fra tutte le immagini, ecco quella più leopardiana, a dire della vastità della domanda e della necessaria limitatezza di ogni realismo:

La gelida galassia rimescola il pulviscolo;
tracimano le stelle,
sostano sulle cimase.

Nel portico l’avvinazzato
ride a viso aperto; smarrisce lo sguardo
nel profondo azzurro.

Con il braccio sollevato e l’indice
sospeso, si sorregge
a un invisibile astro.

p. 41

In questa vasta siccità, sedimenti e detriti, a volte si insinua la dolcezza di un eros allusivo e misterioso, per esempio nella sinuosità di saper cogliere un bacio, un movimento, uno sguardo dietro la finestra che mostra la sagoma di una donna che si spoglia. L’ attenzione finisce così per trasferirsi a un’altra assenza, quella di situazioni in cui le cose, le persone vogliono dileguarsi; sono scene ancorate all’improvviso accadere di qualcosa che non era previsto, descrivono parusie naturali e mi ricordano ciò che accade nei primi testi di Reverdy: il vuoto e il silenzio dopo l’accaduto.

Il fulmine spalanca le case,
le consegna al rotolio del tuono.
Nella gelida luce s’affaccia
un’ombra svelta;
ritira la sottoveste.

La pioggia risale la costa,
tamburella sul rame della gronda,
picchia sulla ringhiera.

Fuori la tempesta non attenua, dà
tormento alle zucche,
abbatte i pinnacoli del sedano.

Le lumache in fila
circondano il cardo
e l’incoronano.

p. 72

Hanno debiti, alcuni paesaggi notturni di questo libro, verso i cieli sconquassati di stelle di van Gogh, la fiaba dell’andarsene via senza gravità di Chagall, il grande occhio cattivo che squarcia il cielo di Giovanni Pascoli. Ma anche certe fiabe d’amore, soprattutto nell’ultima sezione, di un rapinoso sfiorire e fiorire di fiori tra i capelli della donna, del furore di lui, al galoppo, ad inseguire un’idea, il desiderio di un accoppiamento nel ventre del tutto, di una donna cometa, galassia.
Questi detriti sono nebulose, scie di astri e corpi in formazione e disfacimento. Il tutto in un arazzo medioevale con Vicente Aleixandre e Rossetti alle porte.

Il ligustro, il birroccio, la barriera dei cardi.
La cintura persa fra le sterpaglie. Il nuovo signore
batte le donne al lavoro: con lo scettro
le percuote sui fianchi.

Non una che sollevi il grido,
o sommuova il petto. La furia, l’orgoglio
del nuovo padrone che ebbe in consegna
l’intera stirpe, è un fiume.
Lo scriba dagli occhi di fluoro, rimuove l’inchiostro
che non lo soddisfa. Scrive:

La voglia e il furore
sono arterie e vene nel cuore d’ognuno; e tutte
conducono all’inguine.

p. 86

Libro sorprendente, che finisce come non ti aspetteresti, nella dimostrazione, attraverso la scommessa della poesia, che da questi detriti universali di sconforto e di dolore, di disfacimento nel seno della calma, nuovi mondi si formeranno, nuovi amori, nuova vita, nuove opportunità per la parola, luogo, sempre, della possibilità dell’umano e della vita.

LA PAROLA

A te che risorgi dai meandri paludosi
con le anguille in seno, cantilenando; a te che mostri
i tagli sul costato, io dedico l’ombra fragile
dei salici con gesto di pietà filiale;
raccolgo i resti abbandonati
sul dirupo.

- La tormenta li radunò nel cespo, tinti di nera colla,
di verde lichene e muschio –

A te che sollevi il busto del perimetro del fuoco -
mai combusto – io dedico la cura
materna del soccorso.

A te sia dato questo:
risorgere dalle ceneri disperse dei cosmetici
e poi radunate dall’ostro;
o rifiorire sul greto, con le braccia
ricoperte di piastre, solido riparo
ai colpi e alle minacce.

p. 102

Sebastiano Aglieco
Brema, agosto 2013


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