Luigi Paraboschi, Geometrie precarie, Edizioni Helicon, 2009, € 11.00
L’opera si distingue per una sua personalissima musicalità che se risulta abbastanza agevole ottenere con il verso lungo con cui sono costruite le poesie, è invece difficoltosa da trattenere con i contenuti sapienziali che usa e piega per proiettare una scienza esatta della quotidianità scolastica e di una pratica utilitaria ad un dettato ampiamente metaforico della condizione esistenziale.
Come affermato nella prefazione , quella di Paraboschi non è certo una poesia elitaria, intellettualistica , un abile accostamento di parole dalla comunicabilità azzardata ; al contrario, essa utilizza il materiale conoscitivo, ben ordinato nei cassetti della memoria e della storia personale, per scardinarlo e costringerlo a mortificarsi per la sua incapacità di dire il complesso, l’oltre, tutto il dolore, tutto l’amore, tutta la fatica di collocarsi adeguatamente nelle situazioni e permanere in esse in uno stato di quiete pacata. Incapacità che il poeta denuncia subito come propria e, espandendone la forza transitiva, in tutti noi: “ Ecco cosa vorremmo: / trovare le risposte dentro il razionale / cercare la casella ed incrociare i dati,/ fare i confronti e sciogliere il mistero/ sul perché i quadrifogli sono così rari, / ma il dolore è il prezzo del non sapere.”
Così ci risulta chiaro il significato del titolo: la geometria euclidea non serve ( non basta) a definire
la complessità e la contraddittorietà del sentire umano; nessun stratagemma che l’uomo si è inventato per padroneggiare la sua fragilità, le pulsioni che lo scavano e lo abbandonano, dalla geometria alla linguistica , alla stessa religione, è in grado di fornirgli il controllo sulle emozioni, sugli eventi , sugli incontri, sulle tappe e sulle svolte perché “… pur se so di non sbagliare i congiuntivi,/ scopro ormai tardi che il presente indicativo/ è un tempo che ho sempre declinato con approssimazione.” La prima silloge che dà il titolo al libro è tutta incentrata su questa amara consapevolezza che si ritrova con altro materiale contenutistico nella seconda che completa l’opera e che è titolata “Viaggi low cost”. Viaggi a basso prezzo, viaggi dove molto si ha avuto e qualcosa si è perduto; viaggi di giovane che non può permettersi il cinque stelle, di un amore stremato senza che nessuno possa dire quando e come e dove sia iniziata la consunzione; viaggi a basso presto monetario , forse, ad alto costo umano , se con tale espressione intendiamo il gravame sempre più spesso sulle spalle, i bagagli sempre più straripanti, i troppi quadrivi, le destinazioni diventate soste non più sentite come mete. Così il viaggio , metafora di questo terrestre viaggio esistenziale, si fa quiete che sfugge, presa malferma sulla vita , sulla propria personale ( e altrui) .
In questa seconda parte l’io del poeta irrompe più di frequente, si ritaglia una prima persona che subita rimanda ad un noi difficoltoso, scisso, alla lacerazione di giunzioni che non sanno più tenere congiunte cose e persone.
E’ anche un discorso sulla complessità dell’amore, discorso stilato su un pentagramma di note basse, di ritmo lento: qui non si urla, si soffre e si ha la costanza di durare nella sofferenza come una ratio sine qua non, quasi che senza il malessere pervasivo, la malinconia, lo struggimento , la vita perdesse colore e scopi.
Mi piace riportare qualche verso della poesia di pagina 64 , “Cavalli, gatti e cani in Bessarabia”:
“Quanta stanchezza c’è negli occhi / dei cavalli in Bessarabia, la stessa / di tutti i pendolari di Lambrate / oppure a Napoli Garibaldi, la mattina. /…………………….poi masticano qualche sandwich / dentro i fast food o dentro i sacchi / legati alla cavezza, spesso dormono / in piedi già sapendo che per domani / ci sarà lo stesso carro da trascinare / senza perché-dove- e fino – a- quando.”
C’è un pessimismo molto leopardiano in questi versi, lasciano pochi varchi alla luce e alla speranza e in questo si distinguono dalla gran parte della poesia contemporanea che comunque disperatamente possiede o cerca un’ancora, un appiglio, un chiodo a cui appendere la propria fatica di vivere.
Narda Fattori