Luigi Pingitore
intervista all’autore di
Tutta la bellezza deve morire
a cura di Iannozzi Giuseppe
Luigi Pingitore
1. Tutta la bellezza deve morire, tua ultima fatica letteraria, l’ho detto “la Letteratura auspicabile”. Il romanzo ha un piglio molto rimbaudiano, fotografia perfetta dell’attuale gioventù, privata dalle passate generazioni d’un qualsivoglia ideale in cui credere. Quando e, soprattutto, come hai avuto l’ispirazione per questa storia ambientata nel paradiso della costiera amalfitana?
Questo romanzo è la seconda parte di una trilogia dedicata all’estate e all’attraversamento della linea d’ombra. Mi trascino da anni l’idea di una trilogia – anche se preferisco parlare di trittico, perché alla fine quello che cerco di tirare fuori è proprio una struttura più simile alla pittura, alla pala d’altare dove le tre scene diverse appartengono idealmente allo stesso ciclo – trittico sull’estate quindi, e sull’esplosione della giovinezza un istante prima che incomba l’ombra buia della maturità. E dal primo momento sapevo che questo ciclo non poteva che essere concepito nei miei luoghi, presso la mia luce, al culmine di un sud che è innanzitutto parte di un mediterraneo di abbacinante felicità.
La costiera amalfitana è un’ottima sintesi di questa essenza mediterranea, è un luogo ancestrale, bellissimo e imprendibile, è impossibile non essere felici di fronte alla sua bellezza e un secondo dopo si scopre che quella bellezza ti annichilisce, tu non puoi nulla verso di lei perché non ha misura, dilaga negli occhi e nei sensi e ti investe. E’ una sensazione che ho provato quando avevo sedici anni, quando aveva l’età che ha Liv nel romanzo, e come lei da allora non ho fatto altro che sentirmi ronzare dentro l’inquietudine di chi ha assaggiato il paradiso e poi l’ha perso.
2. Tu, Luigi Pingitore, sei anche regista e sceneggiatore. Per certi versi il tuo stile è cinematografico, e perlomeno a me, a tratti, ha ricordato Rebel whithout a cause di Nicholas Ray. Si incorre forse in un grossolano errore tentando di individuare dei punti di contatto tra la gioventù bruciata di Ray e la tua che è immersa in un’inquietudine rimbaudiana?
Chissà. È un film bellissimo e lontano. Credo che tutto ciò che si vede e si ama, o che si legge, si ascolta, si tocca, concorra a formare uno stile. Se dovessi citare un regista o un film mi viene in mente Exotica di Atom Egoyan. Glacialmente sensuale, vite che si incrociano all’ombra di un locale, musica e inquietudine.
3. Perché proprio il leonino Arthur Rimbaud e non il parnassiano Paul Verlaine? Hai forse scelto Rimbaud non solo per la qualità dei suoi versi ma anche per la sua indiscutibile bellezza fisica?
Rimbaud è la giovinezza che sfida la vita e non ha paura. È la bellezza di avere 17 anni e camminare e sputare in faccia ai moralisti e perseguire il proprio sogno con accanimento, è la bellezza di sentirsi sempre in bilico e avere paura e rispondere alla paura con le armi dell’intelligenza e della bellezza. Rimbaud è il grande rifiuto – lui che a 19 anni smise di scrivere poesie e andò in Africa per cambiare vita. Ma rifiutare (come chi rifiuta la vita) è rinunciare (alla vita)? E’ questa la domanda che scorre sotto tutte le pagine e che inconsciamente si fanno tutti i miei ragazzi. Rifiutare è rinunciare? Camus,altro nume tutelare del mio percorso, non a caso l’ho messo ad esergo del libro, dice esattamente il contrario.4. Mentre Pier, Dario, Liv, Luca e Silvia cercano (forse invano) di trovare la loro strada, sulla costiera Amalfitana approda Ezra. Questi ha perso la figlia in un incidente stradale. Ezra non ha pace, la figlia non l’ha mai conosciuta veramente e adesso vuol sapere, comprendere chi lei è stata. E’ Ezra soltanto un padre disattento, o anche un artista capace a metà?
Ezra si è salvato con l’arte. Dev’essere stato anche lui un ragazzo con quei tremori e quelle inquietudini ma ha scoperto che c’era qualcosa, c’era la possibilità di una salvezza nel linguaggio artistico, nella continua sintesi tra proprie emozioni e la necessità di comunicarle. Ezra è la speranza che l’arte tutto sommato ci salvi e che dentro i suoi linguaggi saremo per sempre giovani (che non vuol dire adolescenti, l’adolescenbza è solo una categoria mercelogica) e che tutta la brutalità e la meschinità dell’essere uomo rimarrà un passo indietro.
5. Il tuo stile è, per così dire, cinematografico, fatto di tante inquadrature, di flashback, che pian piano conferiscono un corpo e un senso alla storia: non è possibile intuire la morale di Tutta la bellezza deve morire se non leggendo il romanzo per intero, arrivando alle sue battute finali. E’ questo, a mio avviso, un pregio non da poco, un pregio di bellezza e di contenuti.
Mi piace pensare al mio stile come visivo piuttosto che cinematografico. La parola scritta è tutto sommato qualcosa di astratto, perché ha bisogno della mente del lettore per completarsi. E’ chi legge, infatti, che da un volto, un timbro di voci, una certa posatura di gesti, alle persone che tu de-scrivi. Ma riuscire a portare il lettore verso le tue immagini, verso il mondo così come lo hai dipinto nella tua testa, è una sfida interessante. Se poi quel visivo ha anch’esso qualcosa di informale – nel romanzo si cita Pollock non a caso – allora la sfida è doppiamente interessante. Ecco perché parlo di visivo e non di cinematografico, anche perché è un romanzo che vive completamente nella misura del linguaggio, nel peso delle parole. Non è un romanzo di trama, di plot, ma di parole. E perché si affida a dei finti monologhi interiori; di ogni personaggio conosciamo costantemente il flusso di pensieri. È l’unica tecnica che il cinema non riuscirà mai a riprodurre e rubare alla letteratura.
6. Hai scelto di ambientare le storie dei tuoi personaggi in un Eden (perduto), quello della costiera Amalfitana, peraltro meta di tanti artisti, ieri come oggi. Perché proprio Amalfi e i suoi dintorni e non la Ciociaria di Moravia, ad esempio?
Per quello detto prima. Perché è un mondo primitivo, tutto luce e mare, tutto bellezza e spavento. Perché qui si compie la verità di Schiller e Heiddeger “la bellezza è libertà e spavento”
7. Tutta la bellezza deve morire è anche e soprattutto un romanzo che scava nella vita interiore, ahinoi, costretta nel gioiello apparentemente perfetto della costiera, come se al di là dei suoi confini null’altro esistesse. Il lettore si trova tutto immerso nel mare amalfitano, nella sua quiddità, e viene traghettato al di là dei confini della costiera solo grazie a Ezra. Qual è la tua idea di bellezza, come la definiresti?
Non ce l’ho, è proprio questo il punto. Ed è per questo che ne ho scritto. Ed è per questo che nelle presentazioni è la prima cosa di cui parlo. Parafrasando Carver “di che cosa parliamo quando parliamo di bellezza?”. Per me è uno shock emotivo, un’epifania (joyciana) grazie alla quale veniamo in contatto con il nostro io puro. Ognuno di noi questo shock l’ha provato, almeno una volta nella vita. Ognuno di noi dopo averlo provato ha sentito che la propria vita stava andando in malora dopo. C’è chi si ubriaca poi, chi passa la propria vita chiuso dietro scartoffie d’ufficio, chi tira coca, chi diventa adulto nella malinconia di una perdita senza freno, chi ama tutte le donne che gli capitano a tiro, chi si dà alla video arte. Ognuno di noi cerca…
8. La bellezza è cosa caduca, appartiene alla gioventù e solo ad essa, e proprio per questo motivo è fragile e facile a morire. A tuo avviso, esiste una bellezza eterna, immarcescibile, che non sia quella di un Dio? Può l’uomo, attraverso l’Arte, dar corpo alla bellezza ed eternarla? E se sì, come? Ed ancora: può l’uomo, l’artista avvicinarsi a Dio grazie all’Arte di cui è capace?
Non credo in Dio. Credo, anche se non sempre, nell’Uomo. E l’arte resta il più grande stratagemma inventato dall’umanità per sottrarsi alla corruzione.
9. Nel tuo romanzo è possibile riscontrare una verità o un monito a uso e consumo dei giovani di oggi e non?
No, assolutamente no. Che ognuno vada per il mondo e scopra la propria pena e la propria esaltazione, che ognuno vada nelle feste dove la musica ti assedia il cervello e ti ipnotizza e creda che in quegli istanti sia tutto possibile. Noi dobbiamo ingannarla la maledetta morte, la grande puta per dirla alla Hemingway. Se poi sei in una villa delle Costiera e dopo una sbronza colossale ti affacci e vedi quella meravigliosa distesa color lavagna che è il mare notturno e intravedi il giro di rocce e balzi che scendono a strapiombo a ritmo regolare, se vedi i puntini luminosi degli altri paesi in lontananza e senti che tutta la malinconia del mondo e la sua inefficacia si spegne di fronte a questo fondale immobile e assoluto e hai vent’anni e ancora tutte le possibilità davanti e sai che una serata così è tutto quello che in quel momento ti basta, beh chi se ne frega del dopo!
10. A quali autori moderni o del passato fai riferimento? Chi ha maggiormente influenzato il tuo stile e la tua personale visione della società?
Centinaia e nessuno. Non c’è cosa più terribile e solitaria che scrivere. E comunque i grandi riferimenti sono sempre più negli altri linguaggi. Scrittori sì, ma più che altro pittori, artisiti visivi e soprattutto la musica.
11. Tu, Luigi Pingitore, guardi con interesse o curiosità a qualche moderna corrente letteraria?
No. Io guardo con curiosità a tutto e con interesse quasi nulla.
12. Per Tutta la bellezza deve morire c’è una fascia di pubblico, per così dire, ideale?
Tutti quelli destinati a morire.
13. Quale ideale colonna sonora abbineresti a Tutta la bellezza deve morire?
Ne ho messe due a fine romanzo. Ultime tre pagine. Quella del libro, e quella che ascoltava mentre scrivevo il libro.
14. Quali i tuoi progetti per il futuro?
Chiudere la trilogia con l’ultimo romanzo sull’estate e la linea d’ombra. Continuare a fare cinema, letteratura, andare in giro, fermarmi. Non avere scampo ma fare finta di nulla.
Tutta la bellezza deve morire – Luigi Pingitore – Hacca edizioni – Pagine: 304 – ISBN: 978-88-89920-65-7 – Prezzo: 14,00
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