Michele Medda è un nome che non ha bisogno di presentazioni per i lettori di fumetti, in particolare per chi ama Nathan Never & Co. Lo abbiamo incontrato, nei giorni scorsi, a Milano ed è stata l’occasione sia per parlare di Lukas, personaggio bonelliano in edicola da pochi mesi di cui è coautore assieme a Michele Benevento, sia – grazie alla disponibilità e sensibilità dello scrittore sardo – per confrontarsi sul mestiere di sceneggiatore e sul fumetto italiano. Vi proponiamo oggi la prima parte della nostra conversazione.
Primissima domanda: che fine ha fatto la miniserie sui filosofi greci di cui avevi parlato (a un certo punto Medda per “depistare” su Lukas aveva messo in giro questa voce ...)?
Non era del tutto uno scherzo. Ho una mezza idea. Vediamo se diventa un’idea intera.
Partiamo da una vignetta, dal 2° numero di Lukas, particolarmente curiosa… Qui giochi con una consuetudine classica del fumetto popolare, quella dell’iniziale “doppia” nome/cognome per l’eroe (Peter Parker, Dylan Dog, Nathan Never…). Una semplice strizzata d’occhio al lettore o c’è qualcosa di più?
Nessun significato profondo, solo un gioco. Però non conosco eroi bonelliani a cui la doppia iniziale non abbia portato fortuna.
Lukas invece sceglie come cognome Reborn…
Si chiama così per un motivo che diverrà chiaro nel corso degli episodi.Di più non posso dire senza fare anticipazioni sul seguito… è il problema delle miniserie: inevitabilmente ci sono dettagli che si chiariscono solo quando si arriva alla fine della storia.
E se dovessi riassumere in poche parole il concept della serie come la definiresti?
Un uomo si sveglia dal “grande sonno” e non sa perché.
Come è nata l’idea?
In maniera del tutto casuale. Mi è venuta in mente la scena di un tale che esce dalla tomba e non si spiega come sia possibile. Così ho cominciato a chiedermi chi poteva essere quest’uomo e quale storia poteva avere alle spalle.
In Lukas mi sembra ci sia qualcosa di Mort Cinder… Non parlo di plot, ma di atmosfere…
A dire il vero non ci ho pensato mentre elaboravo il progetto, ma Mort Cinder è uno dei miei fumetti preferiti in assoluto, quindi sicuramente un’influenza c’è stata.
Vignetta di Andrea Borgioli
Lukas è la tua 2° miniserie bonelliana dopo Caravan: quali sono le differenze fondamentali?
Caravan aveva una struttura molto libera, simile a un romanzo. Era e rimane una serie difficilmente etichettabile. Lukas è un fumetto di genere. Del genere ha la struttura compatta e i passaggi obbligati. C’è un eroe, c’è l’arcinemico dell’eroe, la suspense, l’azione.
Tu l’hai definito un “urban Fantasy”. Il che testimonia quanto, ormai, si siano raffinate le definizioni di genere. Un tempo si parlava solo di horror, fantaqualcosa o western…
In realtà, in ambito bonelliano, ogni serie è sempre stata un grande “contenitore” di generi, fin dai tempi di Gianluigi Bonelli, che in Tex Willer faceva confluire il fantastico e la fantascienza. È una caratteristica direi indispensabile nelle serie popolari.
In questo caso, il “grande contenitore” scelto è l’horror: una vera sfida creativa vista l’inflazione mediatica (e fumettistica) di vampiri e zombie! Quale è la tua chiave di racconto?
Ho pensato di rivisitare le figure classiche del fantastico, anche nella loro forma da cliché di b-movie, (l’animale mutato, il licantropo, i troll, etc.), dentro un contesto metropolitano. Ho cercato di immaginare cosa accadrebbe se queste figure si confrontassero con la realtà contemporanea. C’è molta ironia in ogni spunto, anche se, di fondo, credo che Lukas sia la storia più cupa che ho mai scritto.
Ironia e umorismo nero, aggiungo. In Lukas, riemerge questo aspetto della tua scrittura presente anche nelle storie per Nathan Never e, soprattutto, Dylan Dog. Che è un umorismo, se mi passi l’espressione “poco italiano”, non conciliante. Che cosa rappresenta per te?
Non ho mai riflettuto sul fatto che il mio umorismo nero possa essere “poco italiano”. Non ne sono sicurissimo. Alan Ford e Sturmtruppen, due fumetti italiani che ho adorato, erano ricchi di humour nero. Li ho letti e riletti così tanto che è impossibile pensare che non mi abbiano influenzato in qualche modo.
A proposito di Italia, mi viene in mente la tua avventura sfortunata con Digitus Dei che, per certi temi, può anche essere accostato a Lukas ma che era ambientato nel nostro paese. Dal mio punto di vista, era il tentativo di riaffermare la possibilità di un fumetto popolare, di genere, che si alimentasse della nostra cultura che non fosse sempre a rimorchio del mondo anglosassone… Perché questa cosa non sembra funzionare?
Ci sono diverse ragioni storiche e culturali. Ma, essenzialmente, la ragione è che da noi l’avventura è stata per tanto tempo esotismo. Il racconto di un altrove, di mondi lontani nello spazio e nel tempo, irraggiungibili. Guarda il capostipite Salgari, guarda Gianluigi Bonelli, guarda Hugo Pratt. Anche quando l’America raccontava la sua realtà con il western o con l’hard boiled, quella realtà per noi era esotica, lontana. Quest’approccio si è così radicato nel nostro modo di raccontare che è difficilissimo da modificare. Anche adesso che non funziona più. Il mondo è più piccolo e lo conosciamo tutto. Fai un biglietto last minute e voli dall’altra parte del mondo a un costo abbordabile. Perché mai dovrebbero risultare ancora suggestivi i Caraibi di Corto Maltese o l’Amazzonia di Mister No? Oggi ce li hai a portata di mano. O comunque li puoi vedere su Google Maps. Quindi il feeling, l’emozione che ti dava un certo tipo di fumetto – che ha funzionato per decenni e ha generato anche capolavori – non c’è più.
E cosa l’ha sostituito?
Al momento, niente. Il problema è che da noi non si è mai sviluppata una narrativa di genere autoctona, se non a singhiozzo. Se guardiamo il nostro campo, il fumetto, in realtà tentativi di seriale italiano ce ne sono stati. E uno, Desdy Metus, mi sembra che sia addirittura anteriore a Digitus Dei. Poi ci sono le cose di Alessandro Bilotta, dal Dono Nero a Valter Buio.
Bisognerebbe provare e riprovare. Se si pensa che il made in Italy non possa funzionare, allora non funzionerà mai. In questo siamo molto indietro rispetto alla tivù. Serial italiani in tivù ce ne sono sempre stati, anche se quasi esclusivamente polizieschi. Per il fantastico è molto più dura, per via di questo catto-comunismo bestiale che ci ammorba da decenni.
Quel pregiudizio che, a lungo, ha relegato ad esempio Dino Buzzati fra gli “scrittori minori”.
Già. Uno scrittore reputato di nessun rilievo perché “non impegnato”. Traduzione: non era possibile etichettarlo come scrittore “di sinistra”.
Il poliziesco hard boiled, per esempio, è stato accettato a sinistra perché mostrava il lato oscuro degli USA, quindi si prestava a un discorso anti-imperialista, per non dire proprio anti-americano. Col fantasy non c’era modo di identificare hobbit o elfi come proletari oppressi, non c’era modo di imputare la malvagità di Sauron alla povertà e all’emarginazione, quindi niente da fare. Tolkien è stato arruolato a destra. E una volta considerato “di destra” allora doveva essere cattivo per forza.
Un delirio perpetuato dagli anni settanta, quando dividevi con l’accetta i fascisti e i compagni, gli impegnati e i qualunquisti. Il corollario è che poi, presa dai sensi di colpa, certa critica riabilita le commediacce sexy con la Fenech e Alvaro Vitali. Delirio che genera delirio.
Torniamo a Lukas e, in questo caso, a Michele Benevento, coautore e creatore grafico della serie. Da dove nasce la collaborazione?
Quando è finito Caravan ero già sicuro che avrei richiamato Michele a lavorare con me. Ero rimasto colpito non solo dal suo segno, ma anche dall’approccio rigoroso e nello stesso tempo creativo al lavoro. Disegnatori come lui (o come Emiliano Mammucari, per fare un altro nome salito di recente alla ribalta), non hanno solo fumetto nel loro background. Conoscono la pittura, la grafica, il cinema. Amano disegnare dal vero. E poi riversano queste conoscenze nel loro lavoro, senza dimenticare che quello che stanno facendo è fumetto popolare, indirizzato a un vasto pubblico. Quindi non è solo una questione tecnica, non si tratta solo di azzeccare le anatomie o le prospettive. È un lavoro molto più complesso, “di testa” prima che di mano.
Michele condivide con te anche un ruolo di supervisione sugli episodi?
Sì, abbiamo definito (assieme alla redazione) un metodo di lavoro più strutturato rispetto a Caravan, di dialogo costante con i disegnatori, che parte dalla revisione degli storyboard, arriva a quella delle matite e quindi alle chine. In questo modo, cerchiamo di curare tutte le fasi della realizzazione.
Quanto è importante il lavoro di editing in una serie come questa?
Il lavoro di editing è sempre fondamentale, sia per i testi, sia per i disegni. E, come per tutte le serie Bonelli, è molto impegnativo, dovendo in mandare in edicola ogni mese novantaquattro pagine di fumetto. Aggiungo: di fumetto realistico. Perché ovviamente l’impianto realistico esige una cura dei dettagli che nel fumetto americano, per esempio, non è richiesta. Da questo punto di vista noi siamo più vicini al modello francese. Ma, come sappiamo, le serie francesi hanno al massimo due uscite all’anno. Noi dodici (come minimo. Poi ci sono serie che ne hanno molte di più).
Fine prima parte (continua)
Intervista realizzata a Milano il 16 maggio 2014