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Lukas, Nathan, e i filosofi greci: Intervista a Michele Medda – seconda parte

Creato il 04 luglio 2014 da Lospaziobianco.it @lospaziobianco

Prosegue la nostra conversazione con lo sceneggiatore . Dopo aver parlato della sua più recente fatica fumettistica per la Sergio Bonelli, Lukas, in edicola da qualche mese, in questa seconda parte parliamo più in generale del linguaggio bonelliano e del fumetto italiano.

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Hai da poco festeggiato 25 anni di attività come scrittore dei fumetti…
Più che festeggiare ne ho preso atto, semplicemente…

D’accordo. In questi anni, hai co-creato un personaggio di successo come Nathan Never… Sei stato il 1° scrittore della tua
generazione a scrivere Tex Willer… E hai all’attivo storie celebrate per Dylan Dog, Martin Mystere, Nick Raider… Hai scritto (cosa rara per un italiano!) anche per la Marvel… Insomma, in che fase pensi di essere del tuo percorso come autore?
Fasi? No, mamma mia, le fasi, i periodi, sono una roba che fa pensare a Picasso… restiamo con i piedi per terra. Semplicemente, credo che se non mi annoio io a scrivere non si annoieranno gli altri a leggere.

Ho sempre pensato che, se mai fossi riuscito a fare della creatività una professione, avrei fatto di tutto di non ripetermi. Puoi fare una verifica con le mie storie scritte per Nathan Never. Scorri l’elenco e vedrai che sono tutte molto diverse. Gli occhi di uno sconosciuto è raccontata in prima persona, ma da tre personaggi diversi. Le terre morte ha una sceneggiatura cinematografica, senza una sola didascalia. In Dirty Boulevard la storia è raccontata attraverso le didascalie da un “narratore onnisciente”, e così via.

nn_occhi assassino
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Non è un controsenso creare un personaggio seriale come Nathan Never, nato per “replicarsi” nel tempo e poi cercare “di non ripetersi”?
Il “non ripetersi” riguarda il lavoro del singolo autore. Il personaggio e il suo universo hanno una loro coerenza che va rispettata e, in questo senso, replicata. E, infatti, io sono contento che oggi ci siano altri autori impegnati a scrivere la serie.

infiniti universi_1
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Arriva un punto, dopo un certo numero di anni, in cui il fumetto seriale è un moloch che rischia di divorarti. Hai prodotto talmente tanto che ti sembra tutto uguale. Qualunque cosa ti ritrovi a scrivere, l’hai già scritta. Quindi, se tieni alla qualità del tuo lavoro, devi sorvegliarti.
Se invece pensi solo alla pagnotta, è un altro discorso. Nel nostro lavoro, più produci e più guadagni. Però, non nascondiamoci dietro un dito: se scrivi più di mille pagine all’anno, non stai scrivendo capolavori. C’è una bilancia che cerchi di tenere in equilibrio tra le tue esigenze economiche e la qualità del tuo lavoro.

“Le serie popolari creano un pubblico affezionato, ma affezionato solo a un determinato tipo di racconto.” Parole tue. Pensi
che sia questo il limite “tecnico” dello scrivere prodotti seriali?
Non è un limite tecnico, è una caratteristica. Non ci può essere serialità senza ripetizione. Ma penso che gli autori possano ripetere senza ripetersi, perdona il gioco di parole. Allora il pubblico li seguirà. Ogni (buona) narrativa seriale si basa su un equilibrio di costanti e varianti. Ma se ci sono solo le costanti, il lettore si convincerà che quello è l’unico tipo di racconto possibile, e a sua volta lo pretenderà a ogni costo dagli autori. Diventa un circolo vizioso difficile da spezzare.

caravan_medda
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Con Caravan mi sembra che tu ci sia riuscito…
È vero che Caravan ha scontentato e perfino scandalizzato una parte del pubblico bonelliano più ortodosso. Ma è anche vero che, conti alla mano, ha avuto un risultato di vendite in linea con quello di serie avventurose (e ha venduto anche qualcosa di più rispetto a serie tradizionali): in media 35.000 copie mensili. Poco meno di una serie “istituzionale” come Zagor. La miniserie che ha avuto più successo negli ultimi anni è stata Greystorm. E anche quella non era certamente un modello di ortodossia bonelliana, anzi. Il senso del mio discorso è che è giusto avere rispetto della tradizione e tenere conto delle aspettative del pubblico, ma non bisogna nemmeno esserne ostaggio.

nn_banda
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Ripensando ai tuoi esordi, sei partito da un modo molto particolare di sceneggiare, a più mani, con Antonio Serra e Bepi
Vigna. Che ricordo hai di quella stagione?
Una volta Alfredo Castelli, parlando dell’esperienza al Corriere dei Ragazzi, disse che era stato un periodo irripetibile. Una di quelle esperienze che capitano una volta nella vita. Una congiunzione astrale favorevole, che non dura molto, ma ti segna – in positivo – per sempre. Ecco, l’esperienza di Nathan Never per me è stata una cosa del genere. Tieni presente che io e Serra non avevamo ancora trent’anni quando Bonelli approvò il progetto di Nathan Never. In quegli anni credo di avere provato qualcosa di molto vicino alla felicità.

In termini tecnici, cosa ti ha insegnato “scrivere a più mani”?
A non pensare in termini di “buona la prima”, cioè a evitare di essere corrivo. Cosa che a lungo andare, nel nostro lavoro, diventa quasi fisiologica. Sei solo davanti alla pagina bianca, dialoghi a tu per tu con te stesso e spesso ti dai ragione anche quando non ce l’hai. Scrivere a più mani ti costringe a vedere le cose con gli occhi di un altro. In sostanza, impari che non c’è mai un solo modo di visualizzare una scena o di scrivere un dialogo.

nn_numero zero
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Se oggi, dovessi creare una sceneggiatura con qualcuno, con chi ti piacerebbe lavorare?

Sto terminando una storia di Nathan Never insieme all’amico Claudio Fattori, e poi è in lavorazione un episodio de Le Storie che co-firmerò con… nome top secret. Dirò solo che si tratta di una firma nota ai lettori di Dylan Dog.

Da Martin Mystère in poi, il tuo modo di raccontare si è sviluppato all’interno di un formato editoriale (il “Bonelliano”) che ha certe “regole” (le strisce, il numero di tavole, etc.). Ti sei mai sentito limitato da queste regole?

caravan_tav
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All’inizio no, e i primi Nathan Never ne sono una prova: basta solo sfogliarli per rendersene conto. La diversità d’impaginazione rispetto alle serie dell’epoca balza all’occhio. Poi Sergio Bonelli ha cominciato a irrigidirsi su molte cose, sui contenuti sia sull’aspetto grafico, e su tante delle sue scelte io non ero d’accordo. Comunque non mi sono mai arreso. Se mi fossi arreso, non ci sarebbe stato Caravan. A dimostrazione che la rigidità di Sergio Bonelli non era poi granitica come sembrava…

Pensi quindi che questo modo di raccontare a fumetti sia ancora efficace?
Sì, se non viene trattato come una lingua morta, ma come un linguaggio che si adegua a ciò che vuole comunicare. Prendi le didascalie al  passato remoto e in terza persona: sono un espediente classico, quasi “antico”, ma in Lukas credo di averle utilizzate in modo diverso dal solito, per dare il senso di una fiaba moderna. Non è tanto questione di “vecchio” e “nuovo” in assoluto. Si può usare anche ciò che è vecchio in maniera nuova.

lukas_didajpg
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Quando hai pensato storie per altri formati (es. Kylion di Disney) l’hai trovato più stimolante?
Stimolante no. Più facile per certe cose (chiaramente i plot di Kylion erano più semplici rispetto a quelli dei nostri albi), più difficile per altre. Per esempio, si richiedeva una media più alta di vignette per ogni tavola, e non ero mai sicuro di come i disegnatori avrebbero gestito tavole così “affollate”. Poi, quanto a limiti, ovviamente i paletti della Disney erano ancora più rigidi di quelli bonelliani.
Di buono c’è stato che ho lavorato con un autore bravissimo come Francesco Artibani, e poi ho collaborato ancora con lui per X–Campus e Monster Allergy. Ma purtroppo Kylion è capitato in un momento molto difficile per la Disney. Cosicché i risultati non sono stati proprio esaltanti.  Nelle serie Bonelli, al contrario, abbiamo definito nel tempo una pratica comune che ci permette di controllare il ritmo e far sì che, in maniera modulare, ogni pagina/tavola o ogni sequenza si concluda con quelli che Alfredo Castelli chiama “punti esclamativi” e “punti interrogativi”.

MM_tavole
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La pagina/tavola è quindi una vera e propria unità di racconto?
Sì. Castelli ha spiegato anni fa che in realtà era arrivato a questa struttura “modulare” per necessità, perché gli capitava spesso di rimontare le storie spostando interi blocchi di scene. Chiaro che questo era più facile se la chiusura di ogni scena coincideva con la fine di una tavola. Se invece c’erano stacchi di tempo e luogo a metà tavola, la tavola andava tagliata fisicamente, e poi venivano aggiunte delle vignette nuove per completarla. Cosa molto dispendiosa, in tutti i sensi.

Sempre legato a questo, pensi che graphic novel e fumetti in libreria possano essere considerati una reale alternativa espressiva – lasciando da parte le questioni sulle vendite – al fumetto seriale (da edicola)?
Se parliamo di contenuti, è chiaro che opere non seriali e seriali hanno approcci, intenti e alla fine pubblici diversi (parlando in generale. Poi, ovviamente c’è chi legge Gipi e legge anche, per dire, Magico Vento).
Però penso che molti fumetti da edicola – anche Lukas – possano andare tranquillamente in libreria, mentre non credo che siano tanti i fumetti da libreria che possono andare in edicola. Per questioni di mercato, un fumetto in edicola non può permettersi di essere di nicchia. I fumetti destinati alle librerie spesso sembrano addirittura concepiti apposta per la nicchia, anche quando non lo sono. Prendi certe copertine di graphic novel italiani, con uno stile cosi “triste” che pare vogliano tenere lontani i lettori invece che incuriosirli.

autorevspop
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Come se fosse “una colpa” raggiungere un grande pubblico, salvo poi – come dicevamo in precedenza – rivalutare Alvaro Vitali…
È questa concezione penitenziale che c’è in Italia, molto di sinistra, che l’arte deve essere macerazione e sofferenza, che deve fare scappare la gente anziché avvicinarla. E dire che Antonio Gramsci ha scritto pagine bellissime sulla funzione della letteratura popolare… Avrai presente quel pezzo di Gipi, dove lui racconta come vendere tanto lo avesse messo in crisi. Quando l’ho letto, mi sono cascate le braccia. Siamo congelati nel 1976, con Francesco De Gregori “processato” al Palalido al grido di “Se vendi sei un venduto”. Da non credersi.
Invece, personalmente quel che mi piace molto di questo lavoro è proprio la possibilità di comunicare con tante persone, anche le più diverse da me. Ricordo, molti anni fa, di aver visto in metropolitana un giovane punk con l’espressione torva e la cresta, ricoperto di borchie e piercing, intento a leggere Gli occhi di uno sconosciuto… Ecco, d’istinto non gli avrei presentato mia nipote, ma, scherzi a parte, è proprio questo il privilegio: poter arrivare a tanta gente, anche a chi pensi non possa avere nulla in comune con te.

Ringraziamo Michele Medda per la sua straordinaria disponibilità.

Intervista realizzata a Milano il 16 maggio 2014


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