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Luminaria (racconto di Natale)

Creato il 25 dicembre 2010 da Lucas
Raul era arrivato affannato all'appuntamento. Varie traversie si erano frapposte tra lui e il luogo dove lei lo stava aspettando. Per niente al mondo avrebbe voluto tardare, ma aveva sbagliato a calcolare il tempo che gli sarebbe occorso a compiere alcune commissioni personali: l'acquisto di un chilo di clementine affogliate, di tre mele ruggine, di due banane; la riconsegna di un libro in biblioteca; la spedizione di un calendario coi disegni di Eleuteri Serpieri a un amico lontano.La successiva corsa che fece dall'ufficio postale alla sua auto fu, per lui, estremamente faticosa: le mani ingombre di fagotti di frutta e di nuovi libri presi in prestito, i piedi costretti in un paio di scarpe di cuoio non troppo comode, un abbigliamento un po' troppo pesante per l'inconsueta mitezza dicembrina – tutto questo lo fece sudare e accrebbe in lui il timore di presentarsi malconcio all'appuntamento.Mara lo aspettava a bordo della sua auto nell'affollato parcheggio del cimitero, uno dei pochi ancora non a pagamento, ma relativamente vicino al centro. Il ritardo fu minimo, insignificante, pienamente giustificabile. Tuttavia lei mise subito il muso e si tacque. Dopo avergli lanciato un'occhiata rapida e sprezzante, lei volse lo sguardo in un qualsiasi punto dell'universo che non fosse lui.Il silenzio imbarazzante fu spezzato soltanto dal rumore di vari veicoli, fastidiosi squarci di bieche e putride marmitte, ronzii di api piaggio, tremori cupi dei tir, giganteschi gracchi di autobus. Ancora silenzio tra loro. Il viso di lei sempre piegato verso ognidove fuorché il suo – mandibola di marmo. «Oh, se solo tu fossi davvero una statua, adesso almeno ti potrei parlare, sfiorare» si diceva tra sé Raul cercando di bloccare un piccolo rutto e un singhiozzo: la digestione andava avanti anche se aveva voglia di piangere e, per non farlo, continuò a pensare a quale tattica intraprendere per reclamare l'attenzione di quegli implacabili occhi. Mara era ancora più bella quando assumeva quell'aria altera: il suo seno conosceva in quei momenti d'immobilità e d'indifferenza il massimo di floridezza: sembrava esplodere sotto quella fine, aderente maglia avorio mistolana dal collo tondo e leggermente allargato – paradiso delle mani di lui in quei momenti interdetto.Raul sapeva che ogni suo possibile tentativo retorico, che qualsiasi parola avesse detto, essa si sarebbe franta contro la teca di vetro inscalfibile che la custodiva. Era inutile insistere, lei non avrebbe parlato, non ora, non subito almeno. Allora Raul scese di macchina ed entrò nel cimitero. Si fece il segno della croce senza nemmeno pensarci, come un riflesso condizionato (tuttavia allo Spirito Santo si guardò intorno per controllare che nessuno lo vedesse). Non sapeva nemmeno bene perché era entrato, ma visto che c'era avanzò per andare a trovare i nonni. Lanciò un rapido sguardo all'irregolarità delle tombe italiane, sulla bruttura sfarzosa di certe lapidi, sullo squallore delle foto a colori dei defunti.Cosa importa stare a spiegare che lei lo voleva lasciare, dire che Mara nel suo nuovo impiego aveva stretto una relazione “particolare” col figlio del principale, il principalino, con la sua potente attrattiva socio-economica e la garanzia di un futuro (uhi uhi il futuro) meno incerto, più garantito. «Oh, che miseria queste connotazioni sociali! Peggio ancora le connotazioni morali! Cosa sono queste intromissioni» – pensava Raul dopo aver detto, sottovoce, il requiem æterna ai nonni e ritornando verso di lei.Il piazzale del cimitero, rammentò, fu il luogo ove si appartarono per la prima volta. Gli sarebbe piaciuto andarla a trovare lei al cimitero, ora, sottoterra. Salutarla, accarezzare il suo volto bello da lui colto in una foto in uno dei giorni della loro prima primavera, portarle finalmente dei crisantemi (fiori ingiustamente riservati ai morti), parlarle nel silenzio dei giorni come questi dove poche persone frequentano i cimiteri. Saperla lì sarebbe stata per lui una consolazione. Ma per andare a riposare in pace avrebbe dovuto morire e il pensiero della sua morta era solo una rapida immaginazione su un possibile scenario. Tuttavia, mai e poi mai aveva desiderato che morisse; prefigurava solo cosa la morte di lei avrebbe comportato; ma faceva così in fretta ad immaginarlo che non era possibile costruire scenari che gli rendessero l'ipotesi della sua morte appetibile.
Uscì dal cimitero. Lei era entrata nella vecchia utilitaria di lui: era tempo che non accadeva questo, da quando, circa un anno prima, lei si era comprata una nuova autovettura. Da quel momento ella ebbe come un rifiuto nel salire in quell'auto che considerava miserabile. Eppure, le ricordava lui, era proprio il luogo dove avevano consumato il loro primo amore.Raul salì in macchina. Il silenzio e l'immobilità di Mara perduravano. Lo specchietto retrovisore era tutto girato verso di lei. Imbruniva. Lui allungò una mano sulla coscia di lei. Lei allungò uno schiaffo sulla guancia di lui. Lui allungò il braccio intorno al collo di lei. Lei allungò il collo e addentò la mano di lui. Lui bestemmiò, quindi accese il motore e partì. Solo quando raggiunsero il viale del centro illuminato, egli s'accorse che la sua mano destra sanguinava. Bestemmiò in silenzio contro se stesso. Era gonfio di rabbia, i denti serrati, i nervi come corda di violino; ma non disse una parola.«Io non capisco come tu faccia: io non so proprio perché non reagisci, perché non mi picchi. Io, col mio primo fidanzato, poco prima che ci lasciassimo, ci davamo certe legnate, certe botte, che si tornava a casa tumefatti di lividi ed escoriazioni. Tu invece ti fai sanguinare la mano, ma non reagisci. Io voglio che tu mi picchi», disse lei.Egli seppe allora di aver ragione, seppe che sarebbe stato sconfitto. Uscì dall'auto, da solo, e si perse nel fiume di gente del corso cittadino. Le luminarie natalizie si moltiplicavano sotto le lenti delle sue lacrime.

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