Amo e detesto i romani per i medesimi motivi. Sono grevi nel parlare, eppure leggeri nel disincanto, fatalisti e sentimentali, sfacciati e bonari, indolenti e solidali, sarcastici e sprovveduti, fieri e vigliacchi. Ieri un gladiatore davanti al Colosseo, rivolgendosi a un collega in calzamaglia di lana e coturni – minacciava pioggia – che cercava di rimorchiare due ragazzone yankee, gli fa “ ma che stai a di’? te metti a fa’ er Renzi?”, confermando quell’istinto indisciplinato e impietoso a cogliere le debolezze, a ridere delle vanità mortali, a ridimensionare miti, celebrità e potere: il premier che farfuglia in broccolino al posto di Albertone che vuol fa’ l’americano, così che Veltroni era er Coca Cola, Monti er Sedano, e chissà come chiamavano Giulio Cesare e Augusto. Ne hanno viste passare tante e tanti su quelle vecchie pietre, coltivano l’indifferenza, il disinganno e il cinismo come quelle piante tenaci che crescono tra i lastroni di marmo di sepolcri di santi e navigatori, riuscendo a scardinarli, ricordando la caducità di ambizioni, crimini, grandezza, che tanto tutto scorre come il Tevere, giallo e noncurante.
Sarà per quello che accettano tutto, disillusi ancor prima di appassionarsi a qualcosa o a qualcuno, assuefatti ancor prima di accogliere una novità, immemori anche dell’orgoglio, anche dell’onore, che appassisce in fretta, più delle foglie di lauro che cingono gli eroi, aspettando un Nerone a risuscitarli più belli e più superbi che pria. È quello il loro fascino e il loro vizio, che fa accettare la narrazione al posto della realtà, la stagnola al posto dell’oro. Sarà così che accettano il racconto del cinema al posto del cinema, il luna park con le comparse al posto dell’Hollywood sul tevere con i suoi artisti e artigiani, scrittori e falegnami, attori e registi, la patacca al posto della memoria, della gloria, della fama che riguarda anche loro, la città tutta, la sua storia.
Morta Cinecittà si inaugura il più grande parco tematico d’Italia: 20 attrazioni, 8 set cinematografici, 4 teatri. Il tutto disegnato da Dante Ferretti e musicato da Ennio Morricone. E’ il nuovo ‘Cinecittà World’, il primo parco tematico dedicato al cinema che è stato inaugurato a Castel Romano alla presenza di Luigi Abete, presidente di Italian Entertainment Group e Emmanuel Gout, presidente di Cinecittà Parchi. Il parco sarà accessibile ai visitatori a partire dal 24 luglio e sarà aperto 260 giorni l’anno. Il costo del biglietto è di 29 euro, ma ci sono anche prezzi ridotti per i bambini e i pacchetti famiglia.
Deve esserci successo qualcosa di tremendo se preferiamo il reality alla vita, l’imitazione all’originale, l’osservazione alla partecipazione, la visita a prezzo ridotto all’esistere, il fare del governo al decidere per noi, l’inganno alla conoscenza. E per una volta non possiamo dare tutta la colpa alla Tv matrigna, alla spettacolarizzazione della società,forse invece ci tocca rimpiangere Weber che diceva che chi vuole immaginare radiose visioni del futuro è meglio che vada al cinema, ora che non si gira più e al suo posto c’è la visita guidata per guardare come si faceva.
Viviamo in un tempo nel quale migliaia di forzati delle vacanze preferiscono contemplare e fotografare Venezia dal settimo piano di una nave, che camminare nelle sue calli, dirigersi a Parigi per visitare Eurodisney, entrare nel Caesar hotel di Las Vegas per illudersi di stare a Roma. Nel quale un quadro diventa di moda e tutti vanno in fila a vederlo perché ne parla un film, nel quale viene spacciata come bellezza rivelata e tratta dalla polvere del tempo una battaglia leonardesca tarocca, nel quale la brutta Medusa attribuita a Caravaggio grazie a una operazione commerciale acquista più valore e notorietà della vera. E nel quale i parchi “artificiali” sostituiscono l’ambiente vero, Disneyland le favole raccontate e lette e probabilmente l’immaginario e la fantasia, Madame Trussaud le biografie, i ritratti e le opere degli eroi e degli uomini famosi, Park Asterix la storia di Francia, la Villette il piccolo chimico. E dove i pirati vanno all’arrembaggio dalle sartie di navi completamente attrezzate e i visitatori possono risparmiarsi il fastidio di andare fino in Egitto a vedere le Piramidi e i tesori dei Faraoni. Ormai quelli virtuali regalano a basso costo emozioni, passioni, eccitazione: la discesa delle rapide in Nuova Zelanda, la corsa in macchina sulle Alpi italiane, e le gare spaziali intergalattiche, seduti su una poltrona mentre sollecitazioni, sensazioni, rischi simulati ti colpiscono senza mettere a repentaglio la tua vita. E se non ti piacciono, vuol dire che sei misoneista, tecnofobo, arcaico, gufo, perché insegna Disneyland che un parco non solo diverte, ma attrae altre opere nuove, simili, complementari, come alberghi o parchi concorrenti, crea posti di lavoro e stimola la crescita economica locale. E chi se ne importa se è responsabile della massiccia espansione suburbana sui bordi di quello che è di fatto un deserto, con una formidabile pressione sull’ambiente e dove si pompa più acqua dolce di quanta la natura potrà mai rimpiazzare, in modo che più in là, altrove altri posti diventino deserto.
E così si “abbozza” e ce “rimbarza” che cordate di dinamici imprenditori invece di investire in un’industria, con il suo know how, le sue produzioni, i suoi addetti, operai, lavoratori, le sue risorse umane e professionali, la sua storia, la sua creatività, la sua competitività, la trasformi in un’operazione speculativa, in un intervento “immobiliare, di quelli che cancellano con il cemento tradizione, successi, lavoro.
È più profittevole, è più redditizio, è più commerciale mettere – pochi – e attirare quattrini in un luna park che imita Pompei piuttosto che investire nella sua manutenzione e nel suo riscatto. È preferibile che le attività civiche siano state espulse da chiese, parchi e palazzi storici, in cui ora si entra a pagamento, mentre immobili monumentali vengono incessantemente alienati a privati e usufruttuari, che li chiudono o li trasformano in attrazioni turistiche. I luoghi dell’incontro e della bellezza diventano la violenta allegoria dei rapporti di forza, soprattutto economici: da espressione del bene comune, a rappresentazione simbolica della prepotenza e del disprezzo di ciò che è di tutti, perché diventi monopolio e profitto di pochi.
Abbiamo il premier giusto per questo: nella storica visita Arcore ottenne che il 20% degli introiti del David di Michelangelo, andassero al Comune e non allo Stato, che voleva impiegarli per la manutenzione di Capodimonte. Fu lui a dichiarare che «gli Uffizi dovevano essere una macchina da soldi», lui che quindi ha trivellato gli affreschi di Vasari in Palazzo Vecchio alla ricerca della Battaglia di Anghiari di Leonardo, spacciando per indagine scientifica una squallida operazione di marketing alla Dan Brown, è lui che ha sostituito il cinema con la sua narrazione della crescita e la tutela della bellezza con la cartapesta della facciata taroccata à la manière di Michelangelo, proprio mentre lavorava per lo scellerato tunnel Tav che sventrerà una parte di Firenze, e che oggi ripropone come priorità.
Si, non è più tempo della fabbrica dei sogni, di incubi se ne girano anche troppi.