Lunedì film – Il gioiellino – Andrea Molaioli

Da Iomemestessa

Al momento di declinare etica e morale per lunedì film, un pirmo istinto mi ha spinta verso Wall Street.

D’altronde, pensi a Gekko, mentre dice “È tutta una questione di soldi, il resto è conversazione” e ti chiedi: ‘che altro mai potrà essere così paradigmatico?’

Ma a volte il paradigma stroppia. E il rischio è di trascendere nel caricaturale. S’aggiunga infine, che l’amoralità di questo mondo, l’assenza di etica non è patrimonio dei soli Gekko di questo mondo. Magari lo fosse. Che percentualmente, quelli, son minoranza. Il danno vero, lo fanno gli altri. Quelli che si mimetizzano. Quelli che sembrano, un po’. come noi.

Partendo da questo assunto, sono approdata a ‘Il gioiellino’. Nel 2011, Andrea Molaioli, già assistente alla regia di Nanni Moretti, proveniente da un’opera prima invero notevole quale ‘La ragazza del lago’, prende le mosse dal caso Parmalat per confezionare un film che poteva qualificarsi come instant movie e cavalcare, con una certa banalità, il cinema di denuncia finanziaria.

Invece va oltre, creando un affresco difficilmente dimenticabile.

Perchè qui si parte da un genere, il cinema di denuncia, lo si percorre, entro certi limiti, ma si finisce per spostare l’obiettivo anche altrove, anziché perdersi sterilmente nella polemica e nell’invettiva. La rivendicazione popolare contro chi ha, con dolo, rovinato un numero elevatissimo di risparmiatori, non trova spazi, qui.

Per rafforzare questa scelta si noti che i nomi dei protagonisti son cambiati. Tutti. E non certo per timore di denunce, visto come stavano (e stanno) le cose da un punto di vista giudiziario.

Non è un film di denuncia, si diceva. E neppure un thriller finanziario. Qui, il disastro è chiaro fin da subito. E i colpevoli del disastro non sono in dubbio. Mai.

Utilizzando gli strumenti dell’introspezione, si scava tra luci ed ombre (soprattutto ombre) di personaggi che si comprende subito essere immersi in qualcosa di più grande di loro. Borghesi piccoli piccoli, provinciali in senso stretto, che la vanità ha spinto sino al proprio massimo grado di incompetenza nel gestire qualcosa che sarà pur stato da loro creato, ma è sfuggito da tempo al loro controllo.

Sono i portabandiera di certa imprenditoria italica ed esprimono una realtà sociale, umana, culturale di quella classe imprenditoriale sono distintive. E’ rappresentato il tessuto Italia, senza caricature, senza eccessi. Ma anche senza pietismi e pelose giustificazioni.

La vicenda è spunto per trascendere e narrare altro. E’ il senso di una finanza che diventa un tutto in grado di erodere ogni altro aspetto.

Non sono le truffe contabili, le plus valenze, le società offshore, i tesori sepolti nel giardino di casa a dare la misura dell’oltraggio alla morale. Quelli sono gli strumenti. I mezzi, per quanto abietti. Da lì nasce l’illegalità ai sensi del codice penale.

Ma l’immoralità, la mancanza di etica sono nei comportamenti che poi costringono, in una sorta di circolo vizioso, a servirsi di quei mezzi .

Il vero fulcro del film sono le scene che mettono in luce il modo di pensare di una fetta ampia dell’imprenditoria italiana, quella che non è mai riuscita ad uscire dal modus operandi della piccola impresa neppure quando quella piccola impresa è diventata un colosso. Quella che ha collocato ai vertici, figli, nipoti e famigli assortiti, anche quando questi per studi, competenze, formazione, capacità erano palesemente inadatti. Quella che ha mantenuto al vertici i collaboratori di una vita, in ossequio a una presunta fedeltà, anche quando questi personaggi avevano palesemente raggiunto la soglia dell’incapacità. Per assenza di strumenti e di capacità di visione. E per assenza di quell’umiltà necessaria ad ammettere i proprio limiti.

Il centro di tutto sono le scene che portano alla luce quel modo di fare e vivere che rappresenta il nostro Paese e che ne è la più grande condanna.

Sono le scene in cui Amanzio Rastelli (un ottimo Remo Girone) passeggia ogni domenica al solo fine di raccogliere l’omaggio dei suoi concittadini. Sono quegli ossequi provinciali incarnati dalla commessa della pasticceria che si affanna ad aprire la porta, sono quei ‘dottore’ offerti in omaggio a chi dottore non é.

Sono le scene in cui il rigido Ernesto Botta (l’alter ego di Tonna, un altrettanto efficace Toni Servillo) parla del ‘gioiellino’ come se fosse la sua azienda.

Il bisogno di poter continuare a soddisfare queste piccole e grandi debolezze spinge entrambi ad una discesa agli inferi sempre più malata, alla perdita di ogni aderenza all’etica ed alla morale. Alla trufffa, cosciente e continuata, ai danni di incolpevoli consumatori truffati invece da ben più colpevoli banche, strumento, esse sì, consapevolmente immorale e pure totalmente astratto.

Il film da un certo momento in poi si stacca dal caso Parmalar, e pur con una stilistica e un linguaggio differente, non diversamente dal Divo di Sorrentino diventano un grande affresco sui valori e sulla loro perdita.


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