Su, dai, non fate quelle facce lì. Lo so. Sto recensendo l’irrecensibile, l’incitabile, quello che tutti guardano e mai ammettoni.
Che quando parli di cinema, ti ritrovi sempre davanti nostra signora (o nostro signore) della saccenza. Quelli che per loro il cinema è Fassbinder, o, al massimo, Wim Wenders. E quando tu, che sei bastarda dentro, gli dici: ‘Eh in effetti, Wenders con Il posto delle fragole raggiunge vette mai raggiunte prima’ soggiungono con aria grave: ‘Assolutamente. Il punto più alto della sua poetica’. E tu, che hai appena fatto tana, sorridi pensando: ‘Della poetica di Bergman, al massimo’.
E poi ci sono tutti gli altri. Quelli che che quando parlano dei Vanzina assumono quell’espressione schifata, di quando un piccione ti ha appena cagato su un piede e tu hai le tue scarpe scamosciate preferite. E poi, un attimo dopo, ti sciorinano l’intera filmografia di Steven Seagal. E tu traballi. Giusto quell’attimo.
O quegli altri, che inorridiscono davanti a Boldi e De Sica (che sono effettivamente uno scempio), ma poi ti fanno il panegirico di Scary movie. Che fa cagare uguale uguale, ma è ‘ammericano’ e, in quanto tale, molto più figo.
Che poi, si sospetta che tutti questi disprezzatori facciano la fila al botteghino, datosi che i Vanzina, in effetti, incassano mai meno di qualche milione di euro.
E comunque, non è questo l’oggetto della recensione. La domanda che ci si pone, con queste righe, e cosa sarebbero stati i Vanzina se.
Se per esempio tutte quelle vacanze di Natale non se le fosse filate nessuno.
Figli di Steno (che all’anagrafe faceva Stefano Vanzina), i Vanzina brothers viaggiano in coppia, come i carabinieri. E, spessissimo, sprecano il loro talento. Facciamo a capirci. Sono i Vanzina e non Fassbinder, ma quando ci si applica, i meriti vanno riconosciuti.
E nel Pranzo della domenica si applicano.
In breve, la trama. Franca Malorni, romana della media borghesia, si ritrova d’un tratto vedova. La sua vita cambia e le le sue tre figlie Barbara, Sofia e Susanna, tutte sposate, sono ‘obbligate’ a recarsi da lei ogni domenica con famiglie al seguito. Nel corso di uno di questi pranzi della domenica, Franca ha un incidente e si rompe un femore. La sua degenza, lunga e faticosa, farà emergere dissidi e problemi ben celati dietro la facciata borghese.
‘Il pranzo della domenica’ è il capolavoro della premiata ditta Vanzina.
Non un capolavoro in sè, ovvio. Ma in quell’abbandonarsi all’evocazione di pezzi di storia della commedia all’italiana, e nell’occhieggiare un po’ alla Comencini de ‘Il più bel giorno della mia vita’ e un po’ al Muccino di ‘Ricordati di me’, confezionano un film ben più che gradevole.
Una, vaga, satira sociale, che si riduce per lo più a contrappunto, e il racconto, abile, delle contraddizioni affettive di una media borghesia che tutti noi conosciamo bene. Con i suoi punti di vista ristretti, le molte miserie (umane) e le poche nobiltà.
E’ un raccontare, con ironia ma senza sarcasmo, i piccoli misfatti della vita contemporanea. C’è uno sguardo affettuoso, sui personaggi e sulle loro vicende, che rende questo film non greve, e soprattutto non falso.
Detto questo, da un certo momento in poi, si vedono, notevoli, i limiti dei Vanzina stessi, che, non adusi alla conduzione di una storia di questo tipo, sembrano non riuscire a maneggiarne appieno il potenziale.
Il cerchiobottismo politico (una sorta di par condicio per cui alla battuta su Berlusconi segue quella su Bertinotti), limita di molto la capacità di fare vera satira.
Manca sempre qualcosa. Manca la furbizia di Muccino, forse, ma anche, e soprattutto, l’intensità e il sapersi commuovere e far commuovere della Comencini.
Sembra quasi ci sia non già incapacità, ma timore, nell’alzare l’asticella. Una sorta di auto-censura che limita il film facendolo restare un buon film, ma non un film eccellente.
Il cast partecipa con coralità, e soprattutto con abilità. Bravi tutti, vien da dire. Forse, gli uomini, leggermente meglio delle donne. E tra Ghini, Papaleo e Mattioli non sapresti chi scegliere. Una menzione speciale va anzi a Mattioli, uno che ha sempre lavorato moltissimo, ma in ruoli marginali, nel caso di pellicole maggiori, o in ruoli di primo piano, in film francamente risibili. E che dimostra che, se ben diretto, può offrire parecchio, se non in termini di tecnica quantomeno umanità conferita ai personaggi.
Un buon film, si diceva. Che, con tristezza, mostra quel che avrebbero potuto offrire al panorama della commedia all’italiana (che resta pur sempre un gran genere) i Vanzina, se avessero frequentato meno il cinepanettone, o avessero cercato, almeno, l’equilibrio tra cinema e botteghino.