Testi di Ciccio Russo, Luca Bonetta e Gianni Pini/ Intro di Ciccio Russo
Dicono sempre che l’heavy metal è creativamente morto ma alla fine qualcosa di nuovo salta sempre fuori, mi disse più o meno Christopher Johnnson dei Therion in un’intervista di una decina di anni fa. Che l’evoluzione avrebbe continuato a passare soprattutto attraverso la contaminazione si era capito già negli anni ’90. Finché non si è arrivati a un punto nel quale questa musica ha smesso di essere cosa nostra. Ovvero, ha smesso di essere ghettizzata. Gli Slayer che suonano Reign In Blood per intero al Primavera Sound (il festival indie per eccellenza) non vi dicono niente? Il tramite di questo imprevedibile sdoganamento è stato senza dubbio il black metal, quel black metal che, nella mente di un Euronymous, avrebbe dovuto essere la rivendicazione di un’ortodossia andata perduta e che oggi è magnifica ossessione di migliaia di ascoltatori di estrazione post rock o hardcore che non capiranno mai cosa ci troviamo di tanto esaltante nei Manowar ma si sono innamorati di questo genere, riscontrandovi quello stesso disperato ripiegamento individualista che caratterizzò filosoficamente la new wave e, prima ancora, il punk. In certi casi si può parlare di fraintendimento, in altri di una prospettiva a noi aliena ma, a suo modo, dotata di coerenza (e in fondo non è stato lo stesso black metal un elemento alieno nell’universo hard’n'heavy, prima di assimilarsi e perdere, di conseguenza, fascino e ragion d’essere?). Perché il vero fenomeno di quest’epoca sono i dischi metal suonati da musicisti che di metallaro, per formazione e approccio alla materia sonora, hanno poco o nulla. E, come avviene con ogni mutamento, c’è del negativo (continuiamo a non capire cosa abbiano di così interessante i Deafheaven) e del positivo. Da quest’ultimo punto di vista, la canadese Profound Lore è stata l’etichetta che più è stata in grado di intercettare questo cambio di rotta, in un’apertura alle sperimentazioni che non ha trascurato band ancora inserite in un alveo estremo tout-court. Parliamone:
ALTAR OF PLAGUES – Teethed Glory and InjuriesIl debutto di questi irlandesi a titolo White Tomb mi colpì non poco all’epoca, grazie alla sapiente commistione di elementi black metal di deriva atmosferica con melodie post rock (delle quali ammetto di nutrirmi sovente). Passata l’iniziale infatuazione li persi decisamente di vista, complice anche la fama di band cvlto alla quale assursero, periodo che coincise all’incirca con la nascita di quel carrozzone di band post black metal/post hardcore/blackened qualcosa che ha prodotto a mio avviso più ciofeche che altro. Il qui presente Teethed Glory And Injuries venne però presentato in pompa magna, con tanto di video girato per il “singolo” (se di singolo si può parlare in un contesto simile) God Alone, video che peraltro a me ricorda terribilmente The Moribund People dei Peccatum. Che dire dunque del canto del cigno degli Altar Of Plagues? Che è un disco riuscito a metà; si avverte l’intenzione di premere molto di più sulla parte metal del discorso, che purtroppo non è quella nella quale i Nostri eccellono, dimostrando molto più talento sul versante post rock. Il risultato finale è un disco altalenante, che cattura l’attenzione dell’ascoltatore nelle fasi più atmosferiche e melodiche, precipitandolo nell’indifferenza quando poi decide di volgere lo sguardo alla parte più energica e prettamente black metal. La sufficienza è raggiunta ugualmente, ma aleggia durante tutto il platter una sensazione di inadeguatezza che difficilmente le parti più ispirate riescono a lavare via. (Luca Bonetta)
SUB ROSA – More Constant Than The GodsQuesto, se l’avessi ascoltato in tempo, sarebbe finito dritto nella playlist 2013. I Sub Rosa sono tra i gruppi più originali saltati fuori negli ultimi anni dal panorama americano. Il debutto Strega, classe 2008, ancora devo recuperarlo; il successivo No Help for the Mighty Ones era già una piccola gemma di metallo moderno e contaminato, in bilico tra asprezze sludge e suggestioni psichedeliche; questo More Constant Than The Gods è semplicemente uno degli album più affascinanti che abbia ascoltato negli ultimi mesi. È sempre gratificante trovarsi di fronte una band che sfida ogni classificazione, con un suono insinuante e personalissimo dove le chitarre a volte pescano dal post rock metallizzato (o metal postrockizzato?) dei vari Pelican e Russian Circles, a volte si tingono di doom genuino (Fat of the ram), mentre la voce di Rebecca Vernon, nei frangenti più rilassati, rimanda a certo dream pop onirico di filiazione Usa. Recuperateli e innamoratevene anche voi. (Ciccio Russo)
COFFINWORM – IV.I.VIIIQuando, quattro anni fa, uscì lo straordinario When All Became None, il crossover tra sonorità doom/sludge e black metal era ancora relativamente nuovo. O, quantomeno, nessuno era ancora riuscito a interpretarlo toccando le stesse vette di ineffabile disagio raggiunte dai Coffinworm. Uscii letteralmente pazzo per quell’album, forse troppo per non restare, oggi, parzialmente deluso da questa opera seconda del quintetto di Indianapolis. Se paragonato alle nuove uscite di gruppi per molti versi analoghi come i Culted o gli altrettanto validi Primitive Man, IV.I.VIII regge il confronto. Non riesco tuttavia a levarmi di dosso la sensazione che, ora che un’etichetta come la Relapse si è appropriata di queste sonorità, la band abbia agito di conseguenza e riformulato il proprio sound in una maniera meno ostica e più accessibile, tra cavalcate quasi death’n'roll e ammiccamenti al post-hardcore. Un ottimo disco di genere che, probabilmente, rivaluterò a furia di ascolti. Però, sarà il venire meno dell’effetto sorpresa, saranno i suoni più puliti che non riescono a restituire l’atmosfera malsana e inquietante che mi aveva fatto amare così tanto il debutto, resto dell’idea che, stavolta, manchi qualcosa. (Ciccio Russo)
ABYSSAL – Novit enim Dominus qui sunt eiusIl secondo lp della band inglese è il classico disco che sulle prime non ti cattura ma ti incuriosisce abbastanza da costringerti ad ascolti reiterati, nel tentativo di tradurre una materia sonora scivolosa, troppo bizzarra per convincere, troppo originale per non avvincere. Gli Abyssal sono una sorta di equivalente black metal dei compagni di scuderia Portal: una melma sonora densa, nera, appiccicosa e ribollente come la pece della quinta bolgia, dove si resta invischiati senza speranza finché non si comprende che l’unica soluzione è lasciarsi affondare. La forma canzone tradizionale va a farsi benedire, riff doomeggianti sbattono come ubriachi contro tempi di batteria forsennati, i suoni sono spinti sulle tonalità basse e la voce sembra tenuta volutamente in secondo piano dal mixaggio, creando un’atmosfera cupa e straniante, squarciata da improvvisi bagliori di epicità, alla quale è difficile non cedere. Non per tutti i gusti ma da provare. Il titolo è un riferimento al massacro di Béziers, l’episodo più brutale della sanguinosa campagna contro gli albigesi condotta all’inizio del XIII secolo da Innocenzo III, sotto il cui papato ebbe luogo anche la famigerata quarta crociata, culminata nel sacco di Costantinopoli. (Ciccio Russo)
GRAVE MIASMA – Odori SepulcrorumI londinesi Grave Miasma con questo debutto sulla lunga distanza (due già ottimi EP, e una discreta gavetta con l’adorabile nome Goat Molestör) ascrivono il proprio nome nella vasta galassia dei passatisti malinconici che, appoggiati da diverse microetichette (Iron Bonehead, Hells Headbangers, Moribund Records, Svart, Dark Descent e – ovviamente – Profund Lore), stanno provando a rilanciare un’idea classica di death metal, per altro riuscendoci discretamente bene. Senza necessariamente cadere nella trappola del citazionismo esasperato, questi giovani alfieri del demonio hanno tutti in comune quella manciata di influenze che risultano sempre decisive per poter dire qualcosa di vagamente nuovo, termine solitamente proibito nella nicchia del genere. Non è dunque troppo difficile riconoscere nel magma sonoro di Odori Sepulcrorum la spinta mortuaria dei Morbid Angel degli esordi, diciamo quelli pre-Covenant; in questo senso un pezzo come Odoratus Sepulcrorum starebbe benissimo in un immaginario Altars of Madness dei giorni nostri. D’altra parte è impossibile non ravvisare nell’alone putrescente che permea tutto il disco certi buoni vecchi Incantation, a cui non diremo mai troppe volte grazie per averci regalato un’idea brutta (nel senso buono del termine) di death metal. Adesso dicce che ce stanno gli Autopsy - e siamo a posto – direte voi. Per fortuna gli Autopsy si sentono eccome, e viste le intenzioni della band non potrebbe essere altrimenti, o pezzi come Ossuary non esisterebbero proprio. Ma non è tutto qui, sarà forse l’attenzione per certe atmosfere malsane (Interlude), sarà più probabilmente la grecità di certi pezzi (Seven Coils) che ricordano i Rotting Christ dei bei tempi andati, ma Odori Sepulcrorum qualcosa in più ce l’ha rispetto alle tante uscite analoghe, un quid che gli permette di sopravvivere anche a queste prime giornate di sole, quando ascoltare qualcosa di diverso dalla musica bella è un crimine contro l’umanità. (Gianni Pini)
CASTEVET – Obsian
Di fatto sono un gruppo post-hardcore. Gli elementi black metal, relativamente marginali ma presenti, stanno tutti in certi riff storti di voivodiana obliquità che discendono dai Deathspell Omega (e, andando ancora più a ritroso, dai Ved Buens Ende) e animano composizioni ermetiche e sfaccettate, trascinate da una batteria torrenziale e imprevedibile. Nei frangenti più ossessivi e complessi (sanno suonare e si sente) sembrano dei Cult of Luna che giochino a fare il verso ai Cynic; quando si lasciano andare al flusso di coscienza (come nella conclusiva The Seat of Severance), le linee vocali liquide e sognanti, dal gusto vagamente shoegaze, richiamano più gli Anathema che gli Alcest. I Castevet erano la coppia di vicini satanici di Rosemary’s Baby e, come loro, il trio newyorchese nasconde un’anima inquieta e schizoide dietro una facciata sorprendentemente compatta e lineare. Alle quattro corde c’è quello scoppiato di Nicholas McMaster dei Krallice, che da poco ha messo su un duo death metal solo basso e batteria chiamato Geryon, il cui ep di esordio, se non siete sazi di bizzarrie, potete ascoltare su bandcamp. (Ciccio Russo).
Concludiamo con qualche rapida segnalazione per Labyrinth Constellation, ottimo debutto degli ARTIFICIAL BRAIN (la gang di Metallari Brutti li ha descritti come un incrocio tra Gorguts e Ulcerate e frego loro la definizione perché non me ne viene in mente una migliore), The Missing, suggestivo secondo album dei newyorchesi VAURA, in bilico tra chitarre post-black e stralunati rigurgiti gothic/avantgarde, e il più cazzarone esordio omonimo dei VHÖL, sorta di alternativa tru(e)cida ai Kvelertak che vede al microfono Mike Scheidt dei compagni d’etichetta Yob, coadiuvato dal nuovo batterista degli Agalloch, Aesop Dekker, e un paio di tizi degli Hammers of Misfortune. Nel frattempo, potete ascoltare gratuitamente tutti i dischi dei quali abbiamo parlato in questo articolo sulla pagina bandcamp della Profound Lore. Se volete un consiglio, pigliatevi un pomeriggio libero.