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Lungo la West Coast

Creato il 20 ottobre 2015 da Patrickc

Percorrere la costa più selvaggia della Nuova Zelanda, accompagnati dal rumore del mare in tempesta.

Siamo partiti presto e abbiamo già messo alle spalle molti chilometri, oltre 240 che su queste strade sono tanti. Così ci lasciamo alle spalle la cittadina di Westport senza nemmeno averla vista di sfuggita. E quando vedo il cartello che avverte che per novanta chilometri non ci saranno stazioni di rifornimento (e poi ce ne saranno altri cento così) ho un brivido di emozione: sta cominciando la West Coast della Nuova Zelanda, una delle zone più belle, selvagge e disabitate del Paese, si dice. Qui la natura è ptente e gli uomini si diradano, sembrano voler lasciar spazio, per volontà o per forza. La densità è di appena 1,3 abitanti per chilometro quadrato. Per capirci è meno dell’Islanda (3), meno del Sahara Occidentale (2).
L’immagine che ci ha accolto è quella di Cape Foulwind (capo vento cattivo) e il nome è particolarmente adatto. Rimetto ordine nelle immagini mentre cerco di non superare i cento orari su questa strada dritta e deserta: siamo venuti a vedere le pigre otarie e orsine appoggiate sugli scogli, quasi invisibili da lontano, ma è il fragore del mar di Tasmania a rapirmi, le sue onde che assaltano le pietre levigate sulla spiaggia. Sembrerebbe di essere su un’altra West Coast, quella della California, penso a Big Sur, se non fosse per i cartelli che avvertono di tenere i cani al guinzaglio: qui, anche se non li riesco a trovare, da qualche parte ci sono i pinguini. I paragoni sono inutili, la Nuova Zelanda non è paragonabile a un altro Paese.

Dalle parti di Cape Foulwind

Dalle parti di Cape Foulwind (foto di Patrick Colgan, 2015)

Dalle parti di Cape Foulwind

Dalle parti di Cape Foulwind (foto di Patrick Colgan, 2015)

Dalle parti di Cape Foulwind

Dalle parti di Cape Foulwind (foto di Patrick Colgan, 2015)

Alla guida

Alla guida (foto di Persorsi, 2015)

Pancake Rocks a Punakaiki

E pensare che nemmeno ci volevamo venire qui. L’idea di vedere delle spettacolari formazioni rocciose un tempo mi emozionava, ma forse ne ho viste troppe: se guardo le stampe dei miei vecchi rullini dei primi anni duemila erano tutto un susseguirsi incomprensibile di scogliere, di sassi, di vette. Ora mi dicono poco. E poi avevo l’idea di un luogo molto turistico, mentre a me in questi luoghi piace perdermici, passarci molto tempo, ascoltare i miei pensieri. Questi posti hanno la capacità di farti sentire piccolo, ma se c’è troppa gente è difficile, succede il contrario: sembrano essere loro a rimpicciolirsi. Insomma, abbiamo provato a trovare il modo di aggirare Punakaiki, ma la tappa era però praticamente obbligata. Così siamo arrivati al tramonto dopo una lunga giornata al volante e ci siamo infilati lungo il percorso, seguendo il rumore delle onde.

Pancake Rocks, Punakaiki

Pancake Rocks, Punakaiki (foto di Patrick Colgan, 2015)

Punakaiki, Pancake rocks

Punakaiki, Pancake rocks (foto di Patrick Colgan, 2015

Punakaiki, Pancake rocks da vicino

Punakaiki, Pancake Rocks da vicino (foto di Patrick Colgan, 2015)

La roccia sembra in effetti fatta di pile di pancake, o di dischi impilati l’uno sull’altro e non è chiaro nemmeno alla scienza perché abbia questa forma. È grigiastra, ma illuminata dalla luce obliqua delle cinque si infiamma, sembra rossa. Mentre ci avviciniamo il rumore del mare diventa fragore, ci sovrasta e disorienta. E scopro che non è un monumento alla pietra, quello che vediamo: qui più che roccia c’è acqua. L’urto del mare contro la costa è violento e incessante: boati, schiaffi, botti. L’acqua arriva da ovest, ma viene risucchiata e risputata dalla pietra in senso contrario. È il processo della creazione quello che scorre di fronte ai nostri occhi, quello che ascoltiamo. Perché è stato il mare a scolpire la pietra, a romperla, levigarla, straziarla. E lo sta facendo anche ora mentre l’acqua esplode fuori dalle fessure che qui chiamano blowholes, come se fosse un geyser: la roccia è scavata al suo interno, ferita. L’acqua si insinua ovunque, trova nuove strade. Quello che abbiamo davanti cambia con una lentezza che non possiamo percepire, ma inesorabile. E la distruzione può essere bellissima.

Ce ne andiamo inquieti, mentre il rumore del mare resta con noi. E resterà anche nella notte: il nostro albergo, il Punakaiki resort, si affaccia su questa stessa costa. La nostra finestra inquadra le onde che si schiantano su una spiaggia di rocce e sassi a intervalli regolari: sembrano entrare nella nostra stanza. Le vediamo pian piano sparire nelle tenebre. È a quel punto che esco, mi avvicino al mare, non so quanto sia distante. Mi fermo perché ho la paura, un po’ irrazionale, che un’onda possa allungarsi nel buio e strapparmi via. E poi non vedo davvero nulla: pensavo che avrei visto almeno la spuma delle onde, e invece niente. Tanto profondo, luminoso e colorato è il cielo notturno da queste parti, quanto è buio l’oceano: nel suo fragore posso solo cercare di distinguere i suoni delle onde che si increspano e muoiono sulla pietra, la risacca. E’ un suono quasi spaventoso, ma che resta impigliato su quella sottile soglia che divide l’emozione, il brivido, dalla paura.

Punakaiki, uno dei luoghi più potenti incontrati in #nuovazelanda. A questa foto manca il fragore incessante delle onde che, ora che è notte e continua a riempire la nostra stanza si è fatto spaventoso.

Una foto pubblicata da Patrick Colgan (@colgan78) in data: 13 Set 2015 alle ore 04:17 PDT


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