Sul forum di FotoComeFare, un po’ alla volta si stanno distinguendo diversi utenti, in particolare nella sezione “Critica foto”. Così, ogni tanto ne invito qualcuno a parlare del proprio lavoro. Oggi è il turno di Elena Gatti con un reportage da un manicomio abbandonato. I suoi scatti sono estremamente efficaci e la sua sensibilità traspare dalle immagini e dalle parole.
Esistono meravigliose fotografie di luoghi altrettanto meravigliosi, siamo abituati a vederle, ammirarle ed apprezzarle assaporandone la bellezza. Ma la fotografia non è solo immortalare qualcosa di comunemente bello, è un ponte per le emozioni, qualsiasi esse siano. Io ho trovato queste emozioni nei luoghi dimenticati.
Non so bene perché è iniziato il mio interesse verso i luoghi che solitamente le persone rifuggono. Sono posti pericolosi, oggettivamente brutti, sporchi. Sono “mostri architettonici”, edifici abbandonati e lasciati a morire, da soli, nella loro decadenza perenne. Ed è proprio questa decadenza, questo loro essere dimenticati da tutto e da tutti a renderli ai miei occhi così affascinanti.
L’ex manicomio di Mombello
Abito nella bassa bergamasca, al confine con la provincia di Milano e di Monza Brianza, spesso per lavoro mi ritrovo a viaggiare nei dintorni ed è così che ho scoperto l’esistenza dell’Ex Manicomio di Mombello (Limbiate) nelle immediate vicinanze di Saronno.
Si tratta di un complesso molto grande tanto da essere definito, ai tempi in cui l’ospedale psichiatrico era ancora in attività, il più grande manicomio d’Italia.
Informandomi su internet ho scoperto che il luogo è meta molto ambita dai fotografi; ero sul punto di desistere e lasciar perdere, perché fotografare qualcosa che hanno già fotografato in mille? Ma alla fine ha vinto la curiosità e la voglia di mettermi alla prova con una nuova sfida: rendere il mio lavoro unico rispetto a tutti gli altri, o almeno provarci.
Una domenica ho organizzato un piccolo gruppetto di amici e ho iniziato la mia prima perlustrazione. Da informazioni raccolte in precedenza sapevo che il luogo è di libero accesso.
All’esterno degli edifici abbiamo trovato i canonici cartelli “vietato entrare”, ma non abbiamo trovato nessun impedimento all’ingresso. Ovviamente bisogna prestare la massima attenzione, sono posti abbandonati pieni di detriti e sporcizie, perciò è fondamentale munirsi di scarpe chiuse piuttosto pesanti (io indossavo degli scarponcini da trekking) e pantaloni lunghi (mi è capitato di strisciare per sbaglio su un oggetto arrugginito, se non avessi avuto i jeans sicuramente mi sarei tagliata).
Le foto
Era una giornata vagamente nuvolosa nonostante fosse inizio estate, il cielo lugubre anticipava un temporale e ciò ha reso il luogo ancora più interessante. Non sapevo cosa avrei trovato perciò ho portato con me quasi tutta la mia attrezzatura comprensiva di cavalletto, utile per le foto in cui la luce era quasi totalmente assente.
In queste situazioni difficili è fondamentale lavorare in priorità diaframma con apertura massima (in questo caso montavo un obiettivo grandangolare 10-20 la cui apertura massima è di f4) e con alti ISO (la maggior parte dei miei scatti sono dagli 800 ISO fino ai 1600 soglia oltre la quale, con la mia Nikon D7000 preferisco non andare per evitare il troppo rumore).
Ho portato con me anche una torcia che si è rivelata utilissima nella creazione di fotografie inusuali e vignettate dalla luce circolare della torcia stessa.
In questo caso, la stanza era totalmente buia e l’unica fonte di luce era la torcia. Ho chiesto ad un amico di tenerla puntata sul muro illuminando il punto che ho poi fotografato.
Inizialmente ho provato una foto frontale, ma non mi sembrava sufficientemente d’impatto. Così mi sono posizionata appena sotto alla luce, quasi appoggiata al muro, scoprendo che da questa visuale sembrava quasi che quella macabra strisciata di vernice fosse fatta dalla mia mano.
Spesso capita che una buona foto possa nascere da un semplice punto di vista diverso. In tutti i miei reportage ho scoperto che non bisogna essere “pigri” dietro la macchina fotografica, è importante muoversi, girare, osservare e studiare, abbassarsi e alle volte persino sdraiarsi. È incredibile come il punto di vista possa cambiare radicalmente una foto.
Ogni angolo, ogni corridoio, ogni stanza era una scoperta carica di paure e angosce che, col tempo, si sono trasformate in infinita tristezza.
Osservando una sedia abbandonata davanti ad una finestra (probabilmente da qualche visitatore che, come me, cercava di ricreare un’emozione) ho immaginato una persona seduta lì per ore, ad ascoltare il cantare degli uccelli seguendo il variare della luce durante il giorno e lasciandosi scorrere la vita davanti agli occhi.
I luoghi sono ormai deturpati da chissà quante migliaia di avventori e, spesso, vandali.
Qua e là si trovano documenti di vario genere più o meno interessanti: dal semplice inventario della mensa fino ai certificati che ci ricordano l’origine del luogo.
Non potevo però immaginare che, alla fine della visita, mi sarei trovata davanti ad un’incredibile distesa di documenti, cartelle cliniche, lastre, certificati… ho pensato: com’è possibile che tutte queste persone siano state dimenticate qui?
Dimenticate… tutti quei fogli sparsi a terra erano per me innumerevoli vite dimenticate.
Conclusione
In conclusione, nonostante avessi portato con me quasi tutto il mio corredo alla fine le ottiche che si sono rivelate più utili sono state il grandangolo 10-20 f4-5.6 per rendere l’ampiezza di corridoi e stanze, e il medio-tele 28-70 f2.8 utile non solo per la sua apertura di diaframma dati i luoghi piuttosto bui, ma anche per i dettagli.
Non ho invece sentito l’esigenza di un teleobiettivo e sono stata contenta di non averlo portato perché in questi casi è meglio viaggiare il più leggeri possibile.
Di fondamentale importanza invece è il cavalletto a cui va abbinato un telecomando per lo scatto remoto. Mi è stato utile per evitare di alzare troppo gli ISO in zone molto buie; gli unici inconvenienti sono il peso, l’ingombro e il tempo che richiede il continuo montaggio e smontaggio.
Tutta la fatica comunque è valsa la pena, l’esplorazione è durata circa 4 ore ma il posto è così grande che la stanchezza ha vinto la curiosità, si renderà necessaria una seconda esplorazione!
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