LUOGO DI SILENZIO
di LUCIA BONANNI
Luogo aspro di silenzio
è questo ansito di vita!
Un tòpos sensoriale
che negli occhi mi guarda
e le ossa mi stringe
in una morsa di pena.
Con passi tardi
mi viene incontro
al mattino,
con respiro grave
nell’ora del vespro
si accosta nel letto
e al posto di rose
propina notti spinose.
Intorno mi gira
come matador nell’arena;
con picas chiassose
mi dileggia e mi offende
e con banderillas dannose
mi lascia
in una pozza di sangue
poi nella taverna vicino alla plaza
si ubriaca di gloria e consuma
la cena.
Senza volontà,
incorporea e smarrita
vago nel mondo
a cercare un approdo sonoro
a cui gettare la cima; fluttuate
e vestita di sinestesia percettiva
alla mente richiamo voci e rumori
e alla sera prego
per un sonno
dove il linguaggio dei segni
non abbia mai fine.
Commento di Lorenzo Spurio
La nuova poesia di Lucia Bonanni, “Luogo di silenzio”, è multidirezionale e prismatica nel senso che non si focalizza solamente su una suggestione unica della quale fornisce, verso dopo verso, maggiori elementi, piuttosto preferisce “spaziare” tra vari reconditi angoli del pensiero. La parte iniziale, infatti, è dominata da una pressante condizione di atonia (“luogo aspro di silenzio”) che demoralizza e strugge profondamente l’io lirico tanto che l’asprezza della mancanza di suoni o rumori si fa acre e pungente. Ma proprio lì, in quello spazio desonorizzato, depresso e privo di vita vocale, è possibile rintracciare un pur minimo “ansito di vita”. La poetessa mi ha rivelato di aver a mente nel momento in cui scriveva la lirica il prof. Renato Pigliacampo recentemente scomparso. Pigliacampo, poeta marchigiano e docente universitario, dall’età di dodici anni è stato sordo sviluppando una poetica di profonda indagine multisensoriale a difesa del visuomanuale, impegnandosi strenuamente per una serie di battaglie per la tutela dell’ipoacustico e di altre realtà in seria difficoltà. Del “Guerriero del Silenzio”, come lui stesso si autodefinì in una sua poesia e come viene ricordato oggi dai più, la Nostra tratteggia un retaggio d’in-appartenenza al mondo che è quello della sordità, considerandolo con “una morsa di pena”. Ciò che va osservato è che la Bonanni non usa un moto di commozione per lagnarsi o per costruire uno spicciolo pietismo, ma respira a pieni polmoni una situazione che sente vicina che, con solidarietà e animo geneticamente improntato al bene, si sente in dovere di affrontare con l’arte della parola.
La seconda parte del componimento ha una caratterizzazione più ampia, costruita sulle immagini del tempo (“tardi”, “mattino”, “vespro”, “notti”) e del colore: il rosso incandescente del vespro, quello della rosa e del sangue che può stillare dal contatto con le “notti spinose”. Se la spina della rosa al contatto punge, provoca dolore e una leggera perdita di sangue, le “notti spinose” sono momenti di reclusione emotiva, di contemplazione personale e di tormento che possono gravare e tormentare l’uomo, ma anche aiutarlo a credere maggiormente in sé stesso.
La terza parte della poesia ha una matrice chiaramente ispano-folklorica nell’immagine della plaza de toros, tempio della tradizione più viva e rispettata di Spagna nella quale vediamo il toro dar vueltas en la arena. La metafora del toro qui impiegata dalla Nostra non è quella di un animale forte e pesante che, sottoposto al ludibrio ludico e alle vessazioni dell’uomo finisce per morire dissanguato sotto il clamore della folla, ma un’altra, più evocativa e che va ricercata con attenzione.
Il banderillero nell’atto di infilzare le banderillas.
Si ritrova, piuttosto, nei versi della Nostra che descrivono il toro “in gabbia” la tormentosità e la labirinticità del pensiero umano, spesso cripticamente incomprensibile, nel suo tumulto espressivo nel cercar vie di uscita che sono mondi di significazione. Nell’aporia indistinta della vita che ci conduce a continui bivi e spesso a strade che sviano ramificandosi possiamo vedere la corsa feroce del toro che, indistintamente, si avventa su tutto, fiero della sua stazza e imperturbabile nel suo percorso a random. L’io lirico si veste di luci: “come [il] matador nell’arena” veste l’indumento più bello, ricco e luccicante sotto il sole di un pomeriggio qualsiasi ed è protagonista della lotta con la bestia che prima fiacca con delle “picas chiassose” (bellissimo l’aggettivo ‘chiassoso’ in questa posizione dove intuiamo gli olé urlati della folla) svilendone il corpo e oltraggiandolo con armi impari (“mi dileggia e mi offende”) sfoderando banderillas che sono la vigilia della morte per dissanguamento. Se le picas erano “chiassose” le banderillas sono “dannose” perché contribuiscono ancor più a martoriare il corpo dell’animale che, perdendo grandi quantità di sangue, è sempre più debole e impaurito.
Lo scenario finale a una corrida de novillos (o di toros bravos) è sempre per lo più identica e si contraddistingue da “una pozza di sangue” sull’arena assolata. A perpetuare l’impronta narci-egoista dell’uomo dove tutto deve avere un prezzo di vendita (il biglietto per assistere all’euforica mattanza) ci si ritrova non distante dalla plaza in qualche taberna con teste di toro imbalsamate quali trofei ambiti in corride particolarmente celebri appesi alla pareti per quella che la Nostra chiama “la cena” che non è altro che l’atto finale di un procedimento commerciale, alimentare e gastronomico apertosi con la dissacrazione e il macello delle scure carni.
La sazietà che potrebbe derivare da un piatto tanto ricco e profumato contrasta con l’apatia forzatamente indicata dall’io lirico in quel manifesto “senza volontà” tanto da perpetuare un senso di vuotezza e desolazione interiore (“incorporea e smarrita”). Ed è questo il punto più alto della lirica in cui, dopo il rabdomante percorso taurino che spersonalizza l’anima, la Nostra si riconnette all’immagine silenziosa d’apertura creando uno stridore di toni: dall’effervescenza riottosa della calca nell’arena al mondo di grigi silenzi dominati dall’incomunicabilità verbale. In tanto divario la Nostra è in grado di giungere a “un approdo sonoro” che non è quello dell’oralità ma della rappresentazione iconico-gestuale dell’espressione (“il linguaggio dei segni”).
Ai modelli e alla simbologia costitutiva della rumorosa arte taurina, fa da contro canto una soave rappresentazione di immagini in atti manuali che accarezzano l’aria.
Lorenzo Spurio
Jesi, 11-08-2015