Ultimamente mi sto facendo molte domande sulle persone, sia su quelle che dovrei conoscere molto personalmente che su quelle che conosco in via del tutto superficiale, ma anche su me stesso. D'altronde al momento sono in quell'età in cui dovresti essere entrato in pieno diritto nella vita adulta, quella che porta ad avere un determinato comportamento ma, da un altro lato, mi sento ancora abbastanza 'piccolo' da potermi permettere infantilismi vari e tante altre cazzatelle tipiche della gioventù - chissà perché mi viene in mente la canzone Vecchi senza esperienza dei Zen Circus. Ma cos'è che significa crescere, alla fine? Vedo che tutti, adulti o giovani, non se la passano molto bene. Tutti sentono che manca qualcosa, sono insoddisfatti per diversi motivi e vedono la vita fluirgli fra le dita senza poter fare nulla per fermarla, e intanto si perdono in piccole fobie che a conti fatti non esistono. Io sono arrivato alla conclusione che ogni persona, nessuna esclusa, alla fine è spaventata da qualcosa di così grande a cui non sa dare nome, quindi si crea delle micro-paure che, in quanto tali, sono più facili da controllare e categorizzare in una determinata cerchia. Il mondo alla fine è già imprevedibile di suo, l'unica cosa che ci resta da fare nel nostro piccolo sembra essere il cercare di anticiparlo coi pochi mezzi che ci rimangono.
Makis è il proprietario di un piccolo negozietto che conduce una vita spenta, Maria è un'avvenente avvocatessa trentenne che fuori dal lavoro si concede a diverse notti brave e Jimmy è un abbiente adolescente che in silenzio sopporta tutte le ipocrisie dettate dal suo ceto e dalla scuola prestigiosa che frequenta. Cosa hanno in comune queste tre persone?
Il cinema greco è stata una delle scoperte più sensazionali che ho fatto negli ultimi tempi, sempre per merito della blogsfera, perché non è che sia molto pubblicizzato in giro. L'unica volta che ne avevo sentito parlare era stato con lo shockante (ma per me abbastanza deludente) Miss violence, complice anche la sua vittoria del Leone d'Argento al Festival del cinema di Venezia, altrimenti dall'alto della mia ignoranza la reazione che avrei avuto in merito sarebbe stata un semplice ma esaustivo: "Ah, anche in Grecia fanno film?" Da lì ho avuto modo di scoprire una cosa inquietantissima come Dogtooth (il cui autore ha esordito anche su suoli più mainstream con The lobster) e, piano piano, sto raccogliendo autori che prima o poi dovrò visionare. Dopo molto tempo sono riuscito a vedere questo Luton, pellicola di cui sapevo poco o nulla, e credo che questo, come in molti altri casi, sia il mood giusto per iniziare a visionare un film di questo tipo. La pellicola di Michalis Konstantatos è un qualcosa di strano, contiene tutti gli ingredienti tipici dell'ultima ondata del cinema greco che vengono mostrati senza tanta vergogna o tentativo di variare: c'è l'angoscia, quel senso di straniamento, dei personaggi con cui è quasi impossibile provare una qualche empatia e un uso della violenza che, più per gli effetti finali dell'atto, finisce per mettere disagio grazie ai motivi scatenanti. Quest'ultimo sembra un particolare da poco, ma invece è indispensabile per poter vedere e comprendere questo tipo di film, che fanno perno proprio su tutto quello che precede la comprensione dell'effettivo messaggio. La pellicola infatti inizia in maniera molto statica, vengono presentati i vari personaggi ma mai con una metodologia molto dettagliata. Su di loro ci viene detto poco e quel poco viene fatto intuire mano a mano, in frazioni di tempo molto allungate e sorrette per la maggior parte da delle inquadrature molto statiche. Makis è un uomo all'apparenza anche abbastanza viscido che conduce un'esistenza vuota, spenta, priva di qualsiasi slancio (la scena del rapporto sessuale con la moglie come regalo di compleanno è davvero disturbante, a tal punto, pur non mostrando praticamente nulla), Maria dietro l'apparenza di donna riuscita è una persona che sfoga tutto in una sessualità sfrenata e quasi gratuita, mentre Jimmy sopporta stoicamente gli sfottò velati dei compagni e le imposizioni di una famiglia borghese che, anziché avvicinarlo, lo allontana sempre di più da una vera e propria percezione della realtà (anche qua, fantastica la cena del campo da tennis, con quelle palle lanciate che lo colpiscono senza causargli nessuna reazione). Bello vedere come tutto sia discendente, il più giovane è al top della classe sociale mentre il più anziano appartiene al rango più basso, segno come questo malcontento sociale investe tutti, dal più giovane al più vecchio, di tutte le fasce gerarchiche. Va anche detto che alla lunga questo gioco, questo mostrare un simile malcontento sociale, finisce per arzigogolarsi su se stesso e annoiare con una certa ripetitività, ma alla fine tutti i nodi vengono al pettine. Con una soluzione anche abbastanza banale, narrativamente parlando, ma mostrata con classe, con quel montaggio alternato usato in maniera sapiente che sfrutta al massimo il mezzo cinema e mostra le estreme conseguenze del tutto. Un tutto che va a riscattarsi in maniera casuale, sfogando questo malessere su vittima di passaggio e appartenenti alle fasce più basse della società, perché la violenza sembra essere l'unico riscatto in un mondo (circoscrivibile non solo a quello greco colpito dalla crisi, anche se sicuramente è quello preso maggiormente nel mirino) che non offre stimoli o vie di riscatto. L'unico riscatto sembra essere quello di andarsene, cosa che dà vero e proprio senso al titolo anglofono, ma non è un andarsene lieto. Tutto rimane sottotraccia, amorfo come i suoi personaggi, ed accolto dal suono di un pianto di un neonato. Ogni nuova vita si apre col pianto, ma anche il pensare alla propria vecchia spesso porta a questa soluzione.
Mi ha ricordato per certi versi Suicide Club, anche se lì più che di veri e propri sfoghi si parlava di atipiche vie di fuga. Ma ognuno forse ha la fuga che merita.Voto: ★★★ ½