Tutti i (più o meno dettagliati) programmi dei partiti sono diventati carta straccia il 25 febbraio, quando dalle urne sono usciti tre non vincitori che stanno tenendo in stallo il paese da più di 40 giorni (più qualche eclatante sconfitto, in testa il povero Monti che credo si sia amaramente pentito della sua “salita” in politica). Ben che vada (e purtroppo non è detto che vada bene), si riuscirà a fare una nuova legge elettorale.
I partiti tradizionali hanno fatto presto a mettere in soffitta carte d'intenti e promesse shock: sono abituati alle ipocrisie delle campagne elettorali. Più imbarazzati invece quelli del Movimento 5 Stelle, che ora rischiano di rimanere prigionieri del loro stesso programma e delle loro promesse della campagna elettorale, visto che ci credono davvero. Ma non meno grave è la loro colpa oggi, perché la politica si fa nelle condizioni concrete in cui ci si trova, non nel mondo ideale che vorremmo. E (purtroppo, o per fortuna) le condizioni concrete non sono tutte nelle nostre mani, e ci dobbiamo rassegnare a fare i conti con limiti, condizionamenti ma anche talvolta inaspettate opportunità determinati da eventi sui quali non abbiamo il pieno controllo.
Il “tutti a casa” urlato da Grillo nelle varie piazze italiane era uno slogan fatto proprio da chi in quelle piazze andava ad ascoltarlo più per dare libero sfogo alle proprie (legittime e fondatissime) delusioni politiche che per reale convinzione. Un po' come quando i bambini urlano alla mamma “vattene via, non ti voglio più vedere”, salvo poi mettersi a piangere se la mamma se ne va sul serio. La gran parte degli elettori 5 Stelle condivideva questo modo di “spararle grosse” perché mai avrebbe pensato di ottenere un risultato elettorale così determinante. E rimangono allibiti di fronte alla tigna (o coerenza, che dir si voglia) con cui i parlamentari del M5S stanno gettando alle ortiche l'occasione davvero storica di determinare un reale cambiamento. Immagino che anche alcuni degli eletti la pensino in questo modo, ma avendo fatto della coerenza al programma un totem, fanno molta fatica a liberarsi dalla camicia di forza che loro stessi si sono cuciti addosso.
D'altro canto la dialettica tra libertà di coscienza e disciplina di partito è tutt'altro che facile da tenere in equilibrio. Grillo vorrebbe abolire l'articolo 67 della Costituzione che stabilisce che il parlamentare “rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Proposta non completamente campata per aria, visto che un qualche “vincolo” con chi li ha eletti questi parlamentari debbono pur averlo, se no non avrebbe senso presentarsi alle elezioni in liste elettorali distinte per collocazione politica: basterebbe un listone unico in cui ciascuno rappresenta se stesso. E non è un caso che in alcune democrazie occidentali non certo tacciabili di tendenze autoritarie (come per esempio il Regno Unito) i parlamentari sono sottoposti a rigidissime discipline di partito. E tuttavia la democrazia rappresentativa implica una qualche libertà di manovra dei singoli rappresentanti e si fonda sul vincolo di fiducia tra elettori ed eletti. Questi ultimi con il loro voto delegano i loro rappresentanti in parlamento a fare quello che loro (gli eletti, non gli elettori) ritengono il meglio. Un conto è quindi voler mantenere un aperto e costante confronto con la propria base elettorale, un altro è trasformarsi in meri attuatori meccanici di decisioni prese direttamente dalla base con improbabili e pressoché quotidiane consultazioni sul web.
Certo, visto che il cerino in mano ce l'aveva Bersani (e ce l'ha ancora, anche se ormai si sta bruciando le dita), toccava a lui escogitare una mossa per costringere i 5 Stelle a venire allo scoperto. Una trovata come quella che ha portato all'operazione Boldrini-Grasso, che a costretto almeno alcuni parlamentari del M5S a “tradire” il proprio mandato, perché posti di fronte a una situazione che non lasciava molti margini: l'ammissione di alcuni parlamentari siciliani (se consentiamo una rielezione di Schifani alla presidenza del Senato non possiamo più mettere piede in Sicilia) dimostra che quello che a prima vista poteva apparire un “tradimento” delle promesse pre-elettorali, era in realtà l'unico modo per mantenerle nelle condizioni date
Che non ci siano margini per un governo guidato da un dirigente di partito l'hanno capito tutti, tranne Bersani. Ostinarsi a indicare se stesso – ossia il segretario di uno dei partiti che i 5 Stelle vorrebbero mandare casa – come capo del governo “di cambiamento” significa dare ai parlamentari 5 Stelle la scusa perfetta per non sporcarsi le mani. E fa venire il sospetto che questo governo di cambiamento non lo si voglia davvero.
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