In questi ultimi anni la crisi economica, sociale ed etica che sta attanagliando l’intero sistema mondo ci spinge a riflettere profondamente sul significato stesso della parola “Sviluppo”. Cosa che succede raramente; mentre accade spesso che si trascurano i diversi significati che questa parola assume quando viene affiancato da aggettivi quali sociale, umano, tecnologico, sostenibile. Essi ne modificano le interpretazioni, solitamente circoscritte ad ambiti squisitamente economici. In effetti, i significati del termine sviluppo e i suoi “ingredienti” cambiano al mutare di condizioni e contesti, con la conseguenza che spesso non si trova il necessario consenso su ciò a cui, di volta in volta, ci si riferisce esattamente.Come sostiene, Margherita Scarlato, più di cinquant’anni di lavoro teorico ed empirico hanno certamente prodotto utilissimi paradigmi, modelli, indicatori, piani, manifesti che sono stati indispensabili per fare passi avanti nella capacità di analisi e di valutazione[1]. Tuttavia, sostiene la studiosa, si deve riconoscere che, pur avvalendoci di numerosi studi, non siamo in grado di dire esattamente da cosa dipenda lo sviluppo. Alla radice ci può essere un accorto intervento di politica economica, ma può essere anche l’effetto fortuito di un disegno politico, o ancora un insieme di condizioni favorevoli che si sono manifestate spontaneamente. Oppure riforme graduali o piccole scoperte imprenditoriali che hanno costituito però un punto di partenza da cui cominciare per tessere il filo dello sviluppo.
Compito dei decisori politici è fare in modo che quella scintilla iniziale divampi, e questo accade se intorno c’è abbastanza capitale umano e sociale, se non c’è troppa miseria, se si garantisce almeno un livello minimo di equità sociale e non l’attuale sperequazione sociale e conseguente polarizzazione della ricchezza.
Per questo motivo le riforme economiche e istituzionali devono progressivamente aggiustare gli squilibri che emergono continuamente durante la crescita: favorire l’accesso di tutte le componenti sociali ai benefici creati dal progresso economico e stimolare la diversificazione del sistema produttivo. E bisogna essere sempre consapevoli che la storia pesa, ma pesano altrettanto le conseguenze negative di errati interventi di politica economica. Misure politiche sbagliate possono essere inefficaci. Questo è grave perché rappresenta uno spreco di risorse, ma è ancora più grave il rischio che le esternalità negative diventino persistenti. Cosa che accade quando sono alimentati a lungo incentivi distorti a favore di aspettative e comportamenti opportunistici, quando l’attenzione degli interventi è rivolta a gruppi economici e sociali ristretti, quando gli interessi in gioco sono polarizzati[2].
Ma alla base della realizzazione di qualsiasi opera, riforma o semplicemente scelta politico-amministrativa vi sono sempre “persone”. Mario Draghi afferma che lo sviluppo non è di per sé garantito da forze impersonali e automatiche (il mercato può tutto), ma necessita di persone che lo sospingano vivendo nelle loro coscienze il richiamo del bene comune[3].
Carlo Trigilia, sostiene che la degenerazione dei comportamenti politici alimenta sfiducia, riduce la cooperazione e distrugge il capitale sociale. Da qui deriva che la “ricetta” potrebbe essere di puntare sulla selezione e la formazione di una nuova classe dirigente, politica e amministrativa. Luca Murrau nel suo articolo “Qualità delle élite politiche ed etica della politica”, su www.eticaeconomia.it, evidenzia come la percentuale di nuovi eletti al Parlamento italiano in possesso di una laurea, pari al 91,4% all’inizio della I Legislatura, è andata decrescendo nel tempo, ed era nel 2006 soltanto pari al 64,4%. Contestualmente, negli USA, per esempio, la quota degli eletti al Congresso con un livello di istruzione corrispondente alla laurea italiana (il college degree) è invece cresciuta nel tempo, passando dall’88,5% del 1947 al 93,9% del 1993.
Il problema della sviluppo, insomma, non è solo quello della “scelta della ricetta migliore” che i gruppi politici sui diversi versanti propongono, ma è anche quello delle persone che poi di quei progetti si occupano. Ed è per questo che l’Italia, e non solo, ha bisogno di una dose massiccia di incivilimento, di civicness (per utilizzare la definizione cara al sociologo americano Robert Putnam) dei politici, delle imprese e dei cittadini. In questa cura sono cruciali la formazione, la giustizia, una guerra feroce alla criminalità organizzata, alle clientele, alle coalizioni di “interessi”; infine istituzioni robuste, con una configurazione di regole, con premi e sanzioni.
Ma il rafforzamento della virtù civica ha bisogno di pratiche quotidiane, di “esercitazione”, perché non è un concetto astratto ma un bene comune che vive di relazioni umane, che può essere fatto proprio nella testa, nella mentalità delle persone, se queste sono immerse in un fascio di relazioni virtuose. Con l’auspicio che, grazie alla sapiente combinazione di tutti questi ingredienti, prima o poi tutti potremo vivere in un Paese in cui i cittadini si riuniscono per riparare la fontana sotto casa[4].
[1] Scarlato M. (2010), “Lo sviluppo del Mezzogiorno: come superare lo stallo?”, Working Paper n° 112/2010, Collana del Dipartimento di economia, Università degli studi Roma Tre.
[2] Carlo Trigilia nella prefazione del suo libro Sviluppo senza autonomia, Effetti perversi delle politiche nel Mezzogiorno (1992), attribuiva alla richiesta oltre misura di denaro pubblico per interventi straordinari a favore del Mezzogiorno, l’espressione “Sindrome di Sisifo”. Piero Barucci (2008) in Mezzogiorno e intermediazione impropria ha definito, con un’espressione incisiva, “l’intermediazione impropria”, ossia l’invasività della politica in tutti gli aspetti della vita economica e sociale, ciò che produce una totale asfissia delle istituzioni e dei gruppi intermedi.
[3] Draghi M. (2009), “Non c’è sviluppo senza etica”, in L’Osservatore Romano, 9 luglio.
[4] Salvemini G. (1955), “Prefazione”, in Scritti sulla questione meridionale (1896-1955), Torino, Enaudi.