L'occasione della scoperta museale è la mostra "Alberto Giacometti. L'anima del Novecento", il miglior modo per ossigenare una domenica solitaria e malinconica. Non so quante sue esposizioni ho già visto negli anni, la Fondazione Maeght di Saint Paul de Vence per esempio possiede molte sue opere e lo espone regolarmente, Giacometti è una mia grande passione, ma questa mostra, sculture, dipinti e disegni provenienti dalla collezione degli eredi, opere di un Giacometti "intimo" nate da un rapporto strettissimo tra l'artista e lo spazio della creazione, è allestita stupendamente (proibite le foto, le ho fatte malamente dal catalogo). Oltre alla felice sobrietà dell'allestimento, filmati nell'atelier dell'artista, un calendario di conferenze di grande qualità ( quel giorno la testimonianza della figlia del medico Serafino Corbetta, collezionista e grande amico di Giacometti), l'auricolare che accompagnava la visita era la voce stessa dell'artista, con i suoi pensieri, i dubbi, le perplessità di chi cerca ed è sempre "in cammino", proprio come le sue creazioni.
Ho sempre la sensazione della fragilità degli esseri viventi. Ho la percezione che ad ogni istante debbano contare su un'energia formidabile per stare in piedi, istante dopo istante, sempre con la minaccia di crollare. Questo ogni volta che lavoro dal vero.
I giorni passano ed io mi illudo di afferrare, di fermare ciò che fugge, e corro, corro senza muovermi dal posto in cui sto.
Tutti hanno bisogno, fatto un viaggio o trascorsa una serata, di raccontarlo. Il fatto di raccontarlo significa già ricrearlo. In fondo tutti fanno arte, fino a un certo livello. Reinventano le storie. Se l'esigenza di conservare le cose è ancora più forte significa che si è più sensibili alla fragilità.
Per me la figura umana non è un pretesto per realizzare un bel dipinto o una bella scultura, la tela e la materia sono solo strumenti per cercare di rendermi conto meglio di ciò che vedo.Per me l'arte non è che un mezzo per cercare di sapere come vedo il mondo esterno
Quando le mie dita dipingono sulla tela, ghiaccio scende nei miei colori. ( l'artista sosteneva che il grigio è il più bello dei colori perché contiene tutti i colori).
Mi commuovono l'uomo e il suo percorso, mi commuove la sua opera. L'uomo perché lontano dai tanti, troppi detentori di verità con la v maiuscola e certezze sbandierate con disarmante franchezza ed umiltà, che si intuiscono autentiche, condivide le sue difficoltà, i dubbi, la fatica dello sforzo continuo. - le mie ricerche sono opere mancate, sono un artista mancato. Vorrei fare una testa normale, come la vedo, è dal '35 che ci provo, ma non ci riesco- dice di se in un'intervista. E' famoso, mondialmente riconosciuto dalla critica internazionale, eppure procede a tentoni nel precario - un cieco avanza la mano nel vuoto (nel nero? nella notte?), - eppure vive come un asceta dell'arte nel suo studio parigino che è anche la sua casa. Inizia a lavorare verso le quattro del pomeriggio, dopo caffè e lettura di molti giornali, lavora soprattutto di notte. Più che una casa, sembra un antro, il rifugio provvisorio e disordinatissimo di un clochard tra montagne di gesso, le dita sempre impiastricciate di creta, pile di disegni, tentativi di opere sparse qua e là, incessantemente distrutte, rifatte, rimanipolate.
Commovente la sua opera che testimonia dell' inesauribile tensione di ricerca, questa esigenza di cogliere l'essenziale, che si confronta con l'inadeguatezza dell'uomo, con le impossibilità dell'artista. Flaubert rileggeva urlando i suoi testi per cogliere la minima imperfezione formale nella musicalità della frase, il grande poeta Mallarmé si paralizzava davanti al foglio bianco nel tentativo sempre destinato a fallire di raggiungere il suo mitico "Azur", sintesi evanescente di assoluto, ideale, ansia di libertà, sete di infinito. Gli artisti, certi artisti del '900 in particolare, nell' urgenza creatrice assetata di assoluto, spingono sempre più in là le loro ricerche, ma schiacciati dalla storia e dalla drammaticità di due guerre mondiali, non possono che confrontarsi con la precarietà e l'inadeguatezza della condizione umana. E allora Giacometti, eternamente insoddisfatto, distrugge quello che ha appena creato rinnovando da moderno Sisifo le sue fatiche, riduce le dimensioni, sempre più piccole, toglie materia, figure sempre più esili, il piedistallo più materico dell'opera stessa perché deve sostenere la fragilità del passo, di quelle gambe incerte, riduce il suo gesto scultoreo, come questa testa del Padre del 1927, plastica essenziale che più che dire lascia solo intuire, eppure sono pochi gesti significanti, il volto parla.
Anche nei disegni l'artista persegue questo cammino, pochi tratti, sempre di meno, il bianco del foglio occuperà uno spazio sempre più grande, come se l'artista si ritirasse, come se l'uomo accogliesse il silenzio. E' una grande lezione per lo spettatore, perché certo non si tratta di rinuncia, al contrario, la determinazione di provare e riprovare ancora. Rispetto alla ricchezza del colore, delle forme, della materia, del gesto artistico, Giacometti fa un percorso opposto, riduce, semplifica, toglie, elimina, ricomincia; le sue amate montagne sono state certamente una grande lezione, l'austerità ed il silenzio, la bellezza essenziale, la difficoltà della salita. Mi ha colpito scoprire che Fernando Botero, per eccellenza artista di un'arte "opulenta", ama Alberto Giacometti.