Da troppo tempo ormai stiamo aspettando che il palcoscenico si apra. Siamo venuti saltellando a teatro, pieni di desiderio, con gli abiti e le scarpe della festa. Eravamo così belli, così pieni di entusiasmo! Qualcuno ci aveva promesso che avremmo partecipato al gioco, che avremmo avuto la nostra parte dello spettacolo. Ricordo con struggimento quella promessa. E dunque perché il palcoscenico non si apre? E questo silenzio strano, cos’è? E la luce? Quella luce che sa di festa e di paradiso perché si sta abbassando e si precipita nell’ombra?
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La curiosità si muta in nervosismo, la gioiosa aspettativa si trasforma in brusio irritato, inquieto, il vacuo chiacchiericcio. Che orrore! Certi ragazzi iniziano a lamentarsi ad alta voce, sbottano, fischiano, tossiscono forte. Adesso chiamano con frasi sarcastiche, insultano, non hanno più pazienza.
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Cosa diavolo succede? Anzi, perché non succede niente?… il tempo passa, passa. La luce si fa sempre più fioca. Niente, non accade assolutamente niente. Il palcoscenico rimane chiuso, immobile. Il tendone rosso sembra un sigillo di marmo. È plumbeo.
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La protesta ora è generale, incontenibile. È subito caos. La gente si alza irritata dalle poltrone e inizia a sciamare disordinatamente. Il teatro si va svuotando in un frastuono di lamenti e ingiurie. Se ne vanno quasi tutti alla rinfusa, delusi, arrabbiati: orrendamente trasfigurati. Qualcuno è decisamente aggressivo, spintona, impreca, si agita, tira calci.
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Tu ed io ci guardiamo interrogativi, più angosciati che arrabbiati. Che fare? Attendiamo ancora o seguiamo l’onda? Andiamo che noi o rimaniamo ancora? E dire che questa era la nostra serata di libertà… una serata speciale, tutta per noi punto esclamativo potremo forse informarsi con i responsabili, ma chi sono, dove possiamo trovarli? Ci guardiamo in giro alla ricerca di uno spunto, una sollecitazione qualsiasi, qualcosa che si aiuti a capire, a decidere punto ecco, laggù fondo, nell’ultima fila della platea-nell’ombra più scura ora mani-un piccolo gruppo di persone è ancora composto. Bene, non siamo gli unici dunque. Guardiamo meglio: sembra un gruppo di liceali accompagnati dal loro professore un uomo sulla quarantina dall’aria malinconica molto intensa, espressiva… ma poi, guarda, c’è ancora qualcuno giù: sul lato destro quello posto dove sono i ragazzi, un uomo una donna anziani dall’aria dolce e paziente, siedono pazienti. Sono vestiti con cura, come si deve. Due teneri nonnini. Cerchiamo i loro sguardi, incontriamo e ci scambiammo un cenno d’interesse, un muto < ma sì, aspettiamo ancora un poco, dopo tutto il teatro semivuoto e in penombra ha un suo fascino… e poi diciamocelo, che alternative abbiamo? La verità è che tornare a casa è peggio che stare qui.>
No, tornare a casa proprio no, sappiamo fin troppo bene quale realtà troveremo la. Non lo sopportiamo più. È meglio- o comunque è molto meno peggio – attendere la messa in scena di una commedia che forse non in mi inizierà mai, ma che si tiene sul filo di una qualche speranza e che consente quindi di vivere. Ecco ci siamo trovati: gli ultimi, i soli rimasti, quelli che non seguono l’onda.
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Non ci arrendiamo noi, sappiamo attendere perché speriamo che prima o poi una commedia o una tragedia – è lo stesso – si svelerà quello di cui abbiamo bisogno per trovare la nostra strada.
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Ascoltiamo rassegnati il parapiglia della folla che protesta davanti alla biglietteria. Ma con che protestano? Tanto lì non c’è nessuno. Nessuno rimborserà biglietto. E allora diciamoglielo: è stata una spesa inutile e basta!
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E il tempo passa, ancora e ancora. Niente, tutto tace, a lungo, davvero troppo lungo. Da quanto tempo siamo qui ormai? Un’ora? Due?… un anno, una vita, un secolo? Terribile, non lo sappiamo più, non abbiamo la più pallida idea, anzi si pare di essere qui da sempre, in attesa, certi orgogliosi. Orgogliosi? Già, ma di cosa poi? Improvvisamente ci vediamo dall’esterno e la nostra condizione si pare assurda, grottesca. La tenacia dell’attesa sulla quale si siamo retti sentendoci persino orgogliosi si pare pura follia. Cosa ci fanno qui due, noi due, io e tu, in quel teatro dell’assurdo ad attendere la messinscena di una storia che nessuno metterà mai in scena? Un’angoscia sottile, pungente, si impadronisce della nostra anima. Dunque dobbiamo arrenderci, prendere atto che quest’attesa e vana e senza senso. Altro che più pazienti curiosi, a quanto pare siamo solo più illusi e cocciuti. Qualcuno direbbe, e non del tutto a torto, che siamo matti o la realtà è che qualcosa non ha funzionato. Cosa? Non abbiamo la più pallida idea, ma è lì da vedere punto non ci sarà nessuno spettacolo. Sarebbe stato meglio capirlo subito come tutti gli altri, almeno avremmo potuto… già, ma cosa avremmo potuto? Neppure questo sappiamo.
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È terribile rendersi conto che si è fatto tardi per ogni cosa. L’unica cosa certa è che abbiamo esitato troppo lungo davanti un palcoscenico chiuso e tuttora si pare assurdo e irreale. Cosa facciamo qui, in un teatro semivuoto, buio come l’ombra, sporco di cartacce, saturo di echi rabbiosi e muto come un incubo che scava l’anima prima di erompere, scoppiare, invadere il campo?
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I sorrisi dolci rassicuranti della coppia di nonnini trasfigurano in vaghe smorfie di dolore e il professore, con quell’aria così autorevole, cos’altro è se non un personaggio grottescamente anacronistico?
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Si alzano i due nonni, se ne vanno piano piano, vacillano come ubriachi, lo sguardo triste, la testa bassa, forse non vogliono incontrare i nostri sguardi smarriti. Mi si spezza il cuore. Il professore e i suoi ragazzi fanno la stessa cosa, con ordine, compostezza, con tragica, irriducibile, patetica eleganza.
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