La stazione era vuota e questo mi faceva sentire il Will Smith della situazione, la Leggenda, unica donna rimasta in vita sulla faccia della terra. Agghiacciante, pensai. E lì per lì giunse anche il vento, che sembrava accompagnare quella scena immaginaria su cui mi ero messa a fantasticare. Una scena già vissuta però, da un altro attore ancora prima di me, e allora la lasciai andare via, perdersi, nel mio sguardo trasversale fermo sulle piccole onde del mare in lontananza che mi offrivano altri ricordi. Questa volta un pensiero esclusivo, mio, dal sapore di cielo mattutino ancora pallido, di stazione emiliana e facce gentili, di tranquillità e compostezza.
Il campanello avvisava l’arrivo del treno, allora presi i pensieri con me, e con garbo li feci entrare dentro la mia grossa borsa arancione che avrà contenuto si e no trenta oggetti diversi. Il resto delle cose li buttai frettolosamente dentro la testa, e via.
Il vagone pieno mi accomodò in un piccolo angolo alla porta d’ingresso, tra una donna straniera e un signore da una lunga barba grigia che il peso di una borsa scura sulla spalla sinistra lo obbligava a piegarsi sul lato opposto. Da alcuni dettagli della borsa, sembrava essere un fotografo, forse anche per via del taglio scoordinato di capelli ricci e brizzolati.
Dentro quello strettissimo ingresso si sentiva l’odore dei pensieri stanchi di fine giornata. Sguardi persi e saltellanti, braccia appoggiate e traballanti, risate sobrie e trattenute, e la voce del capotreno che annunciava tutte le fermate. Il campanello d’arrivo, la fretta di voler tornare a casa, la doccia, la fame, le urla di qualcuno che nonostante fossero le otto di sera, aveva ancora molta allegria di riserva da esternare.
Un posto libero, e vi sostai. Voci da tutte le parti, voci, quante voci. Per la maggior parte erano voci giovani, in quanto gli anziani poggiavano il capo sognante sui sedili verdi, blu a sfumature grigie – per via della polvere. A quest’ora anche il treno sarà stanco, pensai. A breve terminerà la sua corsa. E anche io potrò concludere la mia giornata.
Lettere cadenti che finivano sotto le rotaie del treno, voci e discorsi già sentiti. Voci che ricordavano e rimandavano ad altre voci.
Questa volta la somiglianza più assurda che avessi potuto incontrare. Una ragazza dalla stessa voce, atteggiamento ed espressione di un’altra ragazza che conosco. Tra le altre cose anche loro si conoscono. E io seduta su quella poltrona, mi facevo stretta, per trattenere un sorriso di assurdità. Quel sorriso che non si riesce mai a trattenere, per il quale si rischia di sembrar matti. Quel sorriso che rischia di trasformarsi in una fragorosa risata, ma che viene trattenuto dalla non presenza di una compagnia con cui poter falsificare la risata.
Non puoi. Non puoi ridergli in faccia.
Ridicolo. Parlano allo stesso modo, pensavo e mi trattenevo.
Campanello, scendo, corro e intanto rido, rido del mondo che più fa finta di esser vario e più si somiglia!
Per questo racconto non potevo che riproporre “Ho sognato un treno” di Solindue. Una foto rapida per un treno in corsa che non vuole fermarsi. Come i pensieri, ma anche come la nostra vita che va, cerca, lotta, si ostina, raggiunge e a volte – anche lei – vive.
E mentre lei vive noi cosa facciamo? Sogniamo, e viceversa come un inafferrabile ciclo a senso unico.