E così da oggi l’Italia ha un nuovo commissario straordinario, l’ennesimo “stregone” dal quale questo Paese si aspetta che arrivi il “miracolo”, l’ennesimo “eroe solitario” al quale l’italiano affida il compito di rimediare ai mali procurati dai propri comportamenti, che lo stesso italiano però non smette di mettere in atto, comportamenti ai quali evidentemente non sa, non intende, rinunciare.
L’ultimo “incaricato di funzioni straordinarie” è Raffaele Cantone, l’uomo al quale Matteo Renzi ha affidato il compito di “cacciare i corrotti”, di “cacciare i mercanti dal tempio”.
Ancora una volta s’interviene dopo l’esplosione di uno scandalo (quello dell’Expo di Milano), ancora una volta si agisce sulla spinta dell’emotività.
A parte il fatto che la logica vorrebbe che ai mercanti non fosse consentito l’ingresso nel tempio, che cioè i corrotti non arrivassero ad occupare quei posti dai quali poi devono essere cacciati, quest’ultima nomina conferma l’impossibilità, in questo Paese, di associare il funzionamento corretto di un’istituzione pubblica a concetti quali “ordinario”, “normale”, “semplice”.
In Italia, evidentemente, non è possibile (e forse neanche concepibile) che possa funzionare correttamente qualcosa di “ordinario” (e anche lo “straordinario” non ha però dato garanzie in tal senso).
La nomina di Cantone, inoltre, non solo è l’ennesima conferma dell’assoluta incapacità della pubblica amministrazione italiana di prevenire, ma sancisce anche la nullità dell’Authority sugli appalti, organismo che, al di là del nome altisonante, si è rivelato uno dei tanti carrozzoni inutili di questo Paese, una delle numerose fonti di spreco del denaro della collettività.
L’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture era stata istituita nel 1999, proprio per vigilare sugli appalti pubblici, uno dei settori più esposti al rischio di corruzione.
I fatti hanno dimostrato che in tutti questi anni abbiamo avuto (e mantenuto) un organismo di vigilanza che, come tanti altri, non ha vigilato.
Il recente scandalo dell’Expo e, ancora di più, i fatti del Mose di Venezia, evidenziano poi, come meglio non si potrebbe, quali sono i mali profondi che caratterizzano gli appalti in Italia.
In primo luogo, quelli più evidenti, più indiscutibili, sono sicuramente il sensibile aumento, rispetto alle previsioni contrattuali, dei costi di realizzazione delle opere e l’allungamento, indefinito, dei tempi di esecuzione (di questo secondo fenomeno sono spesso testimoni oculari gli stessi cittadini italiani).
In tanti anni si è cercato di porre rimedio a questi mali, ma le cure previste si sono rivelate inutili, assolutamente inefficaci, tutte incapaci di ridurre il fenomeno, quanto meno a livelli fisiologici, sopportabili.
Evidentemente la strada da percorrere è un’altra, ma altrettanto evidentemente sono in pochi quelli che se ne rendono conto e ancora meno quelli che hanno intenzione di andare in fondo alla questione, di risolvere “alla radice” il problema.
Quando ci si trova davanti a un problema e l’intenzione è quella di risolverlo (in molti casi non è così, i problemi sono qualcosa con cui si preferisce convivere), logica vorrebbe che, dopo averlo analizzato a fondo, dopo averne individuate le cause, si agisse con decisione per la loro rimozione.
E quali sono le cause all’origine dell’aumento dei costi e dell’allungamento dei tempi di esecuzione delle opere?
Dove questi mali (che rappresentano un grosso problema per la comunità) affondano le loro radici?
Sicuramente le procedure farraginose (ma, più ancora, le menti malate che le hanno concepite), spesso così contorte da risultare inapplicabili, contribuiscono al problema: basti pensare che in molti casi (come in quello dell’Expo) lo Stato italiano deve derogare a quelle procedure che lui stesso s’è dato, segno evidente della loro inapplicabilità.
Ma non è lì che vanno individuate le cause primarie (anche se bisognerebbe procedere con decisione ad una drastica riduzione del numero delle norme e ad una loro scrittura in un italiano semplice, chiaro, comprensibile).
Come ho avuto modo di constatare direttamente nel corso della mia attività lavorativa, i germi che sono all’origine dei mali che si manifestano nella fase esecutiva di un appalto si annidano nelle fasi che precedono l’apertura dei cantieri; mi riferisco in primo luogo alla fase di progettazione delle opere (quasi sempre i progetti risultano non adeguatamente definiti, in quantità e qualità) e al sistema di qualificazione delle imprese esecutrici (basato più su aspetti formali che non su elementi empirici).
A questi vanno poi aggiunte le enormi carenze all’interno del committente, quasi sempre privo di adeguate capacità di verifica.
Ed è proprio su questa mancanza di capacità di verifica da parte del committente che affonda le proprie radici uno dei più classici strumenti ai quali, nella fase esecutiva di un appalto, ricorrono le imprese esecutrici per rifarsi degli sconti (i cosiddetti “ribassi”) grazie ai quali erano risultate aggiudicatarie di quell’appalto: le varianti in corso d’opera.
Come ho avuto modo di constatare, molto spesso, proprio a causa dell’inadeguatezza del committente, vengono fatti passare per “varianti in corso d’opera” fatti che in realtà tali non sono.
Per esempio, dietro quelle che vengono definite “cause imprevedibili” (l’esistenza di cause imprevedibili è uno dei presupposti di ammissibilità di una variante in corso d’opera) si nascondono quelle che in realtà sono gravi carenze professionali, tanto delle imprese esecutrici (spesso prive di capacità tecniche adeguate alle opere da realizzare), quanto del committente (al cui interno le carenze di capacità di verifica, ancora più evidenti, non consentono di smascherare varianti false).
Sic stantibus rebus, il verificarsi di fatti dai quali derivano notevoli danni (non solo di natura economica) per la collettività è una cosa assai facilmente prevedibile (per non dire certa).