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Martedì 27 aprile, intorno alle 9,00 ero in Questura a Reggio Calabria per ritirare un documento; una volta ottenutolo me ne sono andato, e uscendo ho notato un gruppetto di persone che chiaramente attendevano un evento, ma non ho collegato la cosa alla cattura del latitante Giovanni Tegano (e me ne dispiace). Se avessi intuito sarei rimasto a vedere e sarei stato conteggiato tra le duecento persone che secondo il filone d’informazione attualmente più accreditato hanno applaudito il boss. Ricordo che quando ero ragazzo, tra i vari scherzi che usavamo fare uno dei meglio riusciti era quello di piazzarci in fila ai bordi di un marciapiede del Corso Garibaldi e guardare il cornicione del palazzo di fronte, commentando tra noi “ chi dici, si jetta, o no?” (che dici, si butta, o no?); nel giro di dieci minuti attorno a noi si raccoglieva un folto gruppo di persone che guardava in aria senza sapere cosa, e vi rimaneva per minuti e minuti. Reggio è sempre stata così, città di curiosi, apatica, pettegola, festaiola. Una città che pur amando immensamente il compianto sindaco Italo Falcomatà ha trovato a suo tempo motivo di criticarlo (in minima misura, veramente, ma non era mai successo e non è mai successo in seguito) quando ha deciso di spostare le giostre della festività di settembre al piazzale del porto. Una città che il 13 marzo scorso non ha partecipato al No-Mafia Day ma non si è rinchiusa in casa, si è messa ai lati dei marciapiedi e sui balconi a guardare il corteo sfilare. È ora che si cominci a dire le cose come stanno veramente: i filmati parlano chiaro, più di tutti quello dell’ottimo Antonino Monteleone, i presenti erano forse anche più di duecento, ma ad applaudire erano una ventina di parenti ed accoliti. Il resto erano curiosi, molti sicuramente si sono fermati senza neanche sapere cosa stava per succedere. All’uscita dell’ex latitante si sentiva chiaramente gridare “papà, papà”, qualche battuta di mani neanche concentrata in gruppo, una decina di mani alzate in segno di saluto sparse tra la gente anche in seconda e terza fila, e poi la signora che con il suo urlo probabilmente voleva dire qualcosa di ben diverso da quello che è sembrato; si nota che le poche persone che gridano sono sconvolte, non hanno l’atteggiamento spavaldo di minaccia che di solito contraddistingue la gente di ndrangheta: piangono. Piangono anche alcuni bambini e ragazzini, cosa che potrebbe dimostrare che Tegano ha fatto una vita normale durante la clandestinità frequentando la famiglia al punto di essere ben conosciuto da giovanetti che al momento dell’inizio della sua latitanza non erano neanche nati; potrebbe dimostrare che Tegano è sempre stato sul territorio ed in un certo qual modo ha garantito all’ambiente una tranquillità che adesso è messa in pericolo. La manifestazione dei pochi parenti dell’ex latitante davanti alla Questura era più un grido di dolore che una sfida alla Polizia. E quasi tutti gli organi d’informazione locali, in perfetta sintonia con l’indole standard reggina, hanno accettato passivamente le descrizioni dei giornali nazionali, senza pensare minimamente a ribattere descrivendo la realtà. Reggio non è una città mafiosa, è una città dormiente in tutti i campi esclusi quelli dell’illegalità, dove chi si vuole fare i comodi suoi, se è ben sveglio se li può fare tranquillamente. Lo aveva capito tanto tempo fa Nicola Giunta (1895 – 1968): «Chistu è u paisi aundi si perdi tuttu, aundi i fissa sunnu megghiu i tia, u paisi i m'incrisciu e mi 'ndi futtu ed ogni cosa esti fissaria…..» (« Questo è il paese dove tutto si perde (va a male), dove i fessi sono meglio di te, il paese del "mi annoio" e "me ne frego" ed ogni cosa è considerata stupidaggine…»).
Pasqualino Placanica
(pubblicato su costaviolaonline.it)
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