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Già, perché per gli italiani all'estero non iscritti all'AIRE (e nel primo anno nessuno lo è, anche perché l'AIRE non accetta iscrizioni almeno durante il primo anno) che abbiano lavorato in un paese straniero meno di 183 giorni durante il primo anno dovrebbero sempre pensare al fisco italiano e non solo loro. Anche per gli inscritti all'AIRE, bisogna guardare ai propri interessi mantenuti nel territorio nazionale e addirittura si parla non solo di proprietà, attività o statuti, ma anche delle presenza fisica dei familiari (sì, lo so, sembra assurdo) o di un conto in banca e l'uso di una carta di credito.
Il problema nasce dalla differenza tra domicilio fiscale e residenza fiscale, anche se affinché il soggetto venga riconosciuto fiscalmente residente in Italia, sarà sufficiente dimostrare anche soltanto la sussistenza in Italia del suo domicilio civilistico (cioè non iscritti all'AIRE, come una gran maggior parte degli italiani all'estero, nei primi anni ma anche oltre). E il proprio legame con l'Italia deve intendersi comprensivo non solo dei rapporti di natura patrimoniale ed economica, ma anche (e soprattutto) di quelli morali, familiari e sociali. La residenza fiscale in Italia si concretizza qualora la famiglia dell'interessato abbia mantenuto la dimora in Italia o comunque nel caso in cui emergano atti o fatti tali da indurre a ritenere che il soggetto interessato ha lì mantenuto il centro dei suoi affari ed interessi.
Sorpresi? Dovreste pagare le tasse soltanto in Italia qualora si verificassero contemporaneamente tre condizioni all'estero: 1) il lavoratore residente in Italia presta la sua attività altrove per meno di 183 giorni; 2) le remunerazioni sono pagate da un datore di lavoro residente in Italia; 3) l'onere non è sostenuto da una stabile organizzazione o base fissa che il datore di lavoro ha nel paese straniero. Va bene, non capita spesso. Nel momento in cui tali condizioni non si verifichino, entrano in vigore le varie convenzioni (qui quella ancora in vigore tra Belgio ed Italia, per esempio) tra stato straniero ed Italia, per evitare le doppie tassazioni, stabilendo talvolta che i redditi di lavoro dipendente percepiti debbano essere assoggettati a tassazione sia in Italia sia nel paese straniero (sì, in entrambi). E se il lavoratore all'estero non è iscritto all'AIRE (quindi residente in Italia) ma è: I) impiegato per un periodo superiore ai 183 giorni annui, II) impiegato da una azienda straniera III) l'onere non sia sostituito da una stabile organizzazione o base fissa che il datore di lavoro ha nel paese straniero; ecco, l'imposizione fiscale sarà per la maggior parte esclusiva del paese sede del posto di lavoro, ma non è ancora sufficiente: gli stessi redditi dovrebbero (ma occhio alle convenzioni) essere comunicati all'Agenzia delle Entrate che applicherà, dove ritenuto il caso, l'imposizione rimanente. Supponendo che il lavoratore all'estero abbia già corrisposto il 30%, dovrà, se opportuno, pagare al fisco italiano il restante 10%. Questione di aliquote.
Ovviamente dichiarazione non significa tributo, probabilmente una dichiarazione non obbligherebbe a pagare nulla al fisco italiano, ma lascia ad ogni modo aperta la possibilità del dubbio, dove appunto si cela l'evasione. Inoltre, per redditi minori a 7.500 euro, il fisco italiano non richiede nessuna dichiarazione, ovviamente bisogna calcolare nel caso dei 183 giorni se tra lavoro in Italia e lavoro estero si sia superato il limite. Quindi, riassumendo, per i non iscritti all'AIRE, bisognerebbe dichiarare solo in Italia lavorando per meno di 183 giorni (e le altre condizioni di sopra), altrimenti bisognerebbe dichiarare (che non significa necessariamente pagare) le tasse nei due paesi (Italia e paese straniero), con un occhio alle convenzioni tra di due stati, che spesso rendono opzionale la dichiarazione nel paese natio; per gli iscritti all'AIRE invece, le tasse bisognerebbe pagarle soltanto nel paese straniero lavorando per più di 183 giorni (con datore di lavoro estero e stabile organizzazione all'estero), altrimenti ancora in Italia. Se in Italia avete lasciato una macchina a vostro nome o ancor peggio possedete proprietà, a quel punto dichiarare i vostri introiti esteri diventa un obbligo che, se volete, potete ignorare, ma ne saprete di più un giorno magari, al vostro rientro definitivo o alla richiesta di pensione o anche prima, visto che il fisco può applicare presunzioni sulle vostre connessioni con l'Italia e aprire un fascicolo.
Esempio facile: hai iniziato a lavorare a novembre a Dublino, hai un conto corrente in Italia e trasferisci denaro dall'Irlanda su quel conto. Ovviamente hai lavorato meno di 183 giorni in quell'anno e poi non hai dichiarato nulla in Italia, perché giustamente vivevi a Dublino, avevi lavoro a Dublino e pagavi le tassi a Dublino. Ecco, potresti essere un evasore (e come te migliaia) se nello stesso anno hai lavorato anche in Italia e la somma dei due redditi supera la quota dei 7.500.
Altro esempio: non siete iscritti all'AIRE, in Italia avete ancora un'auto, lavorate per più di 183 giorni in un paese straniero, dove pagate regolarmente le tasse, ma non dichiarate nulla in Italia. Ecco, magari non dovreste pagare nulla al fisco italiano, ma non avendo dichiarato nulla potreste essere già in difetto, la risposta bisognerà trovarla nelle convenzioni tra i due stati.
Morale della favola, è bene sapere che il cordone ombelicale non si taglia soltanto con una valigia ed un volo low cost ed i confini fiscali hanno disegni ben diversi da quelli naturali, linguistici o soltanto immaginati, purtroppo. Ovviamente, se avete esperienze a riguardo siete i benvenuti nei commenti, perché a quanto pare anche gli addetti ai lavori hanno pareri distinti e spesso contraddittori.
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