Maalox 6 - La poetica del semiasse

Da Ellisse

Qualche considerazione sparsa partendo da uno spunto. Ho scritto qualche tempo fa su FB: "La parola deve essere decisa". Ora, dei pochi che hanno commentato, nessuno ha colto un paio di cose essenziali. La prima riguarda il vocabolo "decisa", la sua intima ambiguità: decisa come aggettivo qualificativo?, o decisa come participio passato di una forma  riflessiva? Tralasciando il fatto che la frase è nel primo caso assertiva e imperativa, nel secondo sibillina e sciamanica, l'altra cosa è che, con ogni evidenza, in entrambi i casi qualcuno deve pur... decidere, su questa parola: o riguardo al suo carattere (anche le parole ne hanno), o riguardo alla sua scelta o selezione. Comunque sia il problema è tutt'altro che marginale, specie in ambito artistico. Siamo nel campo del paradigma, per dirla con Jakobson (e prima di lui De Saussure), e cioè là dove chi comunica deve selezionare le sue brave parole. Dopodichè deve decidere (appunto) che farne. Deve scendere cioè sul terreno della combinazione delle parole medesime, per farne una frase (sintagma), un verso o quel che vi pare. Fin qui tutto regolare: in prima battuta si fa una scelta "sulla base dell’equivalenza, della similarità e della dissimilarità, della sinonimia e dell’antinomia" (Jakobson), poi si costruisce la frase sulla base della "contiguità", cioè della "accostabilità" delle parole, ad esempio in termini sintattici o di contesto o logici oppure, in ultima analisi e meglio ancora, di metonimia. Ma Jakobson aggiunge una cosa interessante, in relazione alla "funzione poetica" del linguaggio: che essa “proietta il principio d’equivalenza dall’asse della selezione all’asse della combinazione. L’equivalenza è promossa al grado di elemento costitutivo della sequenza”. D'accordo, ma che significa? Intanto, cos'è la funzione poetica? In parole povere si ha una funzione "poetica" del linguaggio quando l'attenzione, la cura, l'accento riposti nella selezione (delle parole) vengono spostati in maniera rilevante - rispetto al messaggio in sé, al cosa dire - sulla modalità di comunicazione, quando cioè "nella concreta esecuzione del linguaggio ‘poetico’ l’equivalenza, la similarità degli (tra gli) elementi (parole, sintagmi ecc.) prevalgono sulla loro contiguità e cioè sulle regole stesse della successione" (V. Coletti, voce "Lingua poetica", in "Treccani.it"). Quindi, in parole povere, la funzione poetica del linguaggio si prende la briga di ricombinare, di rompere o sostituire la norma, di scegliere ad esempio sulla base del suono invece che della logica, di deviare. Ovvero si prende la briga di come dire. E' ovvio che la poesia non sta tutta lì (è uno dei limiti delle tesi di Jakobson e dello strutturalismo in genere), c'è naturalmente dell'altro, e lo dimostra il fatto che la "funzione poetica" è lo strumento principe per l'invenzione di quegli slogan politici o pubblicitari, così  poco poetici, che ci rompono l'anima tutti i giorni (del resto lo stesso Jakobson avverte che "ogni tentativo di ridurre la sfera della funzione poetica alla poesia, o di limitare la poesia alla funzione poetica sarebbe soltanto una ipersemplificazione ingannevole"). Ma alla fine e in estrema sintesi tutto questo discorso vuol dire che è il poeta a decidere non solo se una parola "equivale" a un'altra, ma anche se un costrutto, un suono, un azzardato accostamento semantico hanno diritto di cittadinanza nel testo, se sono equivalenti quanto e più di una struttura ordinaria. E' il poeta a decidere il suo personale linguaggio sregolato.
Perchè questo lungo sproloquio intorno a cose note? Solo un discorso ellittico (poteva essere diversamente?) per tornare alla nostra parola che abbiamo detto deve essere decisa. Il problema di molte cose che leggo (e che probabilmente scrivo anch'io) è un difetto appunto di decisione. Che non sta tanto nella selezione di cui si diceva prima, anche se (fattore che forse Jakobson ha tralasciato) per scegliere bisognerebbe pure avere un'idea di quello che il menu della lingua offre, cioè avere un ventaglio di opzioni lessicali che invece molti indizi fanno supporre che si stia drammaticamente restringendo. Questo certo è un fatto, una questione eminentemente culturale,  che riguarda non solo chi non sa, ma anche chi preferisce non sapere, chi sceglie la via più semplice (penso ad esempio all'impoverimento del linguaggio giornalistico e dei media, all'ipersemplificazione). No, questa è solo una parte del problema, dato che si può fare eccellente poesia anche con un vocabolario tanto ristretto  da essere iperselettivo. Un breve esempio, tra i tanti:
Sono donne che sanno
così bene il mare
che all'arietta che fanno
a te accanto al passare
senti sulla tua pelle
fresco aprirsi di vele
e alle labbra d'arselle
deliziose querele.
(G. Caproni)
D'accordo, ho fatto un esempio estremo, per molte ragioni (vocabolario volutamente semplificato, primazia del suono e della forma, anastrofe,  francesismi, una velata metonimia ecc.), di un testo in cui la selezione è accuratamente asservita alla funzione poetica (degli elementi ad esempio ritmici e rimici: è evidente che il mare non "si sa", che l'aria non "si fa" ecc.). Ma non basterebbe tutto ciò. C'è qui (ripeto, è solo un esempio tra infiniti) un altro paio di cose essenziali al fine poetico: la messa in scena di un'intera compatta sinestesia, tre robusti agganci isotopici (mare, vele, arselle), uno strepitoso finale trappola che ti fulmina, con quel termine inusuale, e  ti costringe a fermarti a immaginare quale sapore senta davvero il poeta sulle labbra. O quale forse egli sogni di sentire sulle labbra delle ragazze livornesi che passano cicalando in quel lontano 1938. Ma quel che è più rilevante è che in questo piccolo testo di un grande poeta, nella sua semplice leggerezza, c'è molto poco di "contiguo" in senso spaziale, temporale o logico nella scelta delle parole, poco di "combinato". La contiguità è quella ben più alta dell'io dell'autore con il momento, un io molecolare, tanto calato nel momento da scomparire del tutto. Quindi l'impressione di naturalezza che dà l'aria zampillante e sorgiva di questi versi è assolutamente vera e contemporaneamente del tutto falsa, come abbiamo appena visto. Qui tutta la selezione è orientata abilmente sulla funzione emotiva ed è tale che, in effetti, senti l' "arietta" attraversare la trasparenza dei versi. Il problema di molta poesia che si legge e che si scrive oggi è di segno contrario. Se la base principale del linguaggio è la convenzione sociale che lo regola (ciò che De Saussure chiama langue), una delle spinte che funziona di più nella comunicazione ordinaria è, per ovvie ragioni, la consuetudine. Per quanto sia possibile riscrivere  gran parte del corpus poetico italiano utilizzando (quasi) soltanto le 2500 parole del "Vocabolario ad alto uso" di cui parla il De Mauro,  uno dei punti critici rimane il meccanismo mentale che ci spinge a stabilire un'equivalenza "minima" o consuetudinaria tra selezione e combinazione. Cioè, in altre parole ci porta, magari dopo essersi lambiccati il cervello, a scegliere una soluzione "facile" o comoda, anzi - come ho avuto modo di dire spesso - confortevole, appagante, sequenziale ("Aspettavo. / E mentre aspettavo / ho visto le foglie d'autunno / seguire il corso del loro declino; / morire nel rosso, / già gialle". Già, in effetti avrebbe potuto andare diversamente? Forse sì, se la poesia fosse stata surrealista). C'è quindi, come ho cercato di sottolineare, un difetto di decisione in questo tipo di scelta. Che, a pensarci bene, non è dissimile dalla scelta che fa chi scrive qualcosa del tipo "il tuo in(de)finito amore": diciamo pure che chi pensa di risolvere la questione in questo modo, cavandosela con poco, sbaglia di grosso (con una battuta direi che qui più che poetico il problema è sentimentale, con buona pace dell'autore). E ancora, ma con qualche differenza, tutte quelle parole composte che ho trovato specie in molta poesia femminile (sanguelinfahumus, tradiscetrasgredisce, ventretempio ecc.), una specie di necessità di "gravidanza" delle parole, che però da una parte crea qualche confusione dall'altra denuncia, ancora, un difetto di focalizzazione del pensiero, là dove invece  starebbe bene, ne sono convinto, magari una bella similitudine. E', per usare termini calcistici, un fallo di reazione rispetto a ciò che si diceva poco prima. C'è infatti almeno un altro punto critico, a mio avviso, quello che sta all'opposto, sempre in termini di selezione/combinazione: una ricerca artefatta del discontinuo, del lontano, dello straniante o dell'urtante (un esempio "antico", anni '70: "sicchè carpeggi nell'autorimettere donna / franchezza acclamàti per lustra o demanio / oh pomario, sacchi di menticata senza grugni..." o anche, più recente: "Lo spettro è divenuto barriera cancerogena / quando sei apparsa immacolata dalla stiva del tuo cranio / immobili discendenze facciali altrimenti dette rughe / han preso piede nella morsa dei ricordi dentro me" (*). Ovviamente stiamo parlando solo di alcuni tra quelli che potrebbero essere punti critici in un testo poetico. La poetica del semiasse, come la chiamo scherzosamente, riguarda quindi soprattutto, dal mio punto di vista di lettore, un elemento disturbante, un disequilibrio, un appiattimento all'interno del testo, come se appunto la mancanza di una delle direttrici, dei vettori, rendesse il testo "monodimensionale", afasico, senza una sostanziale prospettiva, una profondità. Non so se riferirsi ai vecchi strumenti citati all'inizio sia ancora utile, è una cosa forse da indagare (in ogni caso lo è nella misura in cui può concorrere alla comprensione del valore del testo). Certi strumenti, certo, non rendono mai spiegabile quel che di indicibile rimane nel linguaggio poetico. E certamente   la parola poetica, se mai avesse un compito e un diritto, ha quello di essere in primis anti consuetudinaria e anti conservativa. Ma ha anche quello di essere decisa, almeno nei termini che qui ho cercato di intravedere. (g.c.) (continua, forse...)
(*) i brani citati sono tutti autentici. Ne ometto gli autori perchè in questo contesto sono solo degli esempi.

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