4 gennaio 2012 Lascia un commento
Egli nella seppur breve prefazione del "Macbeth Horror Suite" su "Opere, con l’Autografia d’un ritratto" in realta’ spalanca ogni porta per entrare in una dimensione simbolica che nel caso dell’opera shakespeariana, altro non e’ che il sunto degli intendimenti del grande drammaturgo inglese.
Eppure, all’apertura della prefazione nella quale scrive "Macbeth (’82-83) segna la fine della scrittura scenica e spalanca l’avvento della macchina attoriale, sollecitato dall’esperienza elettronica ereditata dalla fase cinematografica e maturata nell’avventura concertistica del poema sinfonico (s)drammatizzato" pare vi siano intendimenti bellicosi e rivoluzionari mentre (s)drammatizzando, Bene sottrae dall’opera l’impalcatura teatrale arrivando al nucleo del testo, rinunciando praticamente a tutto con l’eccezione di una Lady Macbeth comunque depotenziata, lesa e completamente sottomessa all’autarchia del Macbeth, unico protagonista laddove Shakespeare ante Freud esternava cupidigia e coscienza umana nelle tre streghe, Bene riconduce ad una dimensione interiore le voci relegando la stessa Lady Macbeth a proiezione di brama e desiderio, una "Lady domestica" la definira’ sempre nelle "Opere".
Bene esemplifica e in questo modo diviene exemplum, modello non della tragedia, non del protagonista bensi’ dei suoi orrori, ecco quindi la parafrasi del titolo e la ragione del sangue non sulle mani e sui volti dei personaggi ma sulle bende, esterne ma non estranee, elementi che avvolgono il corpo e lo definiscono laddove la pungente corazza della vita provvede a nascondere e a celare agli occhi altrui.
La macchina attoriale quindi funziona, purifica il testo da ogni orpello e nel ritmo, nei suoni che diventano onomatopee, svela la piu’ profonda umanita’ del protagonista e me lo si conceda, anche dell’interprete.
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