Macché dies irae! Il 3 maggio sarà solo un altro die paludibus
Creato il 29 aprile 2011 da Massimoconsorti
@massimoconsorti
Se qualcuno pensa che il 3 maggio Berlusconi cadrà è meglio che si metta l’animo in pace. La manfrina fra lui e Bossi, l’ennesimo gioco delle parti pro-media, segnerà un’altra tappa ma non sarà quella finale, perché il rapporto fra i due leader carismatici del terzo millennio è basato su presupposti psichiatrici e non sulla politica. Da una parte c’è un malato cronico di protagonismo e di autoidolatria che si crede Dio, dall’altra un ex diplomato della Scuola Radio Elettra che, andato per un po’ a scuola dal professor Miglio, pensa di essere diventato il profeta del federalismo fai da te senza averne capito una mazza. Ma così va il mondo quando a governarlo sono gli ignoranti. Dunque. Umberto Bossi non è contro i missili lanciati sugli obiettivi militari strategici libici, non è, per principio, contro la guerra e non potrebbe esserlo un personaggio che ad ogni piè sospinto minaccia l’intervento armato del suo popolo di ubriaconi e di mistificatori di quote latte. Lui non vuole che l’Italia spari perché ad ogni razzo corrisponde un barcone di profughi pronto ad attraccare a Lampedusa. E che potrebbe fare la sua base elettorale se si ritrovasse invasa dai libici disperati che bivaccano a Milano, a Bergamo o a Varese se non incazzarsi come già sta avvenendo attraverso le onde di Radio Padania? C’è da aggiungere che fra qualche giorno si vota e al Senatùr non va proprio giù di lasciare giunte comunali e provinciali alla sinistra. Bossi, insomma, non è né Gandhi né Giorgio La Pira, è solo uno che ha trovato particolarmente piacevole la tradizione culinaria romana e si è adattato in un amen al “magna magna” che denunciava non potendovi partecipare. Silvio tutto questo lo sa, e lo sta facendo sfogare come fanno i genitori con i figli isterici e in lacrime perché non gli hanno acquistato l’ultimo videogame. Silvio sa, ad esempio, che quando si vota, i toni dei comizi di Bossi si adattano al pubblico che si trova di fronte. Sa che se parla alle casalinghe deve puntare tutto sulla paura del “negher” e sui possibili contagi da malattie tropicali. Come sa che se si trova di fronte gli allevatori,deve promettergli che le multe della UE le paga lo stato italiano altrimenti i bovari padani potrebbero anche votare per D’Alema. Poi basta seguire le dichiarazionidei suoi per rendersi conto che si tratta dell’ennesimo bluff, al quale però la presunta sinistra sta abboccando ancora una volta, tanto che inizia il corteggiamento alla luce del sole dei vari Calderoli, Maroni, Salvini e altri clown del premiato circo “La Lega”, come fossero degli statisti qualunque. C’è da aggiungere che, come accade sempre più spesso, a muovere le fila dei burattini c’è il solito Mangiafuoco, al secolo Giulietto von Tremonti, al quale non sono andati giù né gli ultimi attacchi ad personam di Galan né quelli precedenti di Brunetta, che aspira a prenderne il posto, né di madama Dorè Prestigiacomo né dell’ancella amante di Mezzaroma Carfagna: la Gelmini, poverina, non conta e non accusa. Giulietto, che da grande vuole fare il presidente del Consiglio (e Silvio lo ha capito), ha dalla sua un potere immenso: il portafoglio. Lo apre e lo chiude a seconda dell’interlocutore che si trova davanti e, predicando quotidianamente lacrime e sangue, sta spingendo il governo sulla strada del suicidio politico. Galan non sbaglia quando afferma che “con Tremonti si perdono le elezioni”, perché in fondo è quello che vuole Giulio pronto a presiedere un governo di “decantazione” o di “emergenza nazionale” o di “solidarietà”, fate voi che tanto il significato è lo stesso. La riprova è che l’incontro fra il superministro dell’economia e non più l’”unto del Signore” ma il Signore in persona, è andato maluccio: “tregua fino alle amministrative”, si sono detti Silvio e Giulio voltandosi le spalle. E, per prepararsi al meglio alla resa dei conti post-elettorale, Tremonti ha pensato bene di mettere in pista il suo mastino migliore, Umberto Primo re di tutte le Padanie. Ha iniziato con la guerra di Libia (un retaggio storico duro a morire) e finirà con le elezioni del consiglio comunale di Milano, snodo strategico di tutte le battaglie che, se la Moratti dovesse perdere, potrebbero segnare davvero la fine del rapporto animalesco fra la Lega e il Pdl. Il comune di Milano è a rischio. Lo sanno tutti. Silvio per primo tanto che ha deciso di presentarsi capolista proprio per tentare di raccogliere il massimo dei consensi. I sondaggi non danno la mamma di Batman favorita già al primo turno e questo, se si dovesse verificare, potrebbe essere la volta buona che tutte le anime della sinistra e dell’elettorato scontento leghista decidano di far convergere i voti su Pisapia. Silvio sa perfettamente che se si andasse al ballottaggio perderebbe Milano, la sua roccaforte, il simbolo stesso del suo potere e questo non può permetterselo. Sarebbe l’inizio della sua fine, e questa è la ragione per la quale gli sta bene anche un Lassini qualsiasi. Bossi è stato di una chiarezza disarmante: “A Milano corre Berlusconi, se perde, perde Berlusconi". Mezz’uomo avvisato...
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