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Sostengo da tempo che le vestali dell’anti-casta utilizzano la sacrosanta battaglia contro gli sprechi nella amministrazione pubblica per scopi assai meno nobili. Del resto non hanno mai nascosto quale fosse il loro obbiettivo: riaccentrare nello Stato competenze e funzioni che persino una Costituzione unitarista ha dovuto delegare verso il basso: regioni, province, comuni. Non lo hanno nascosto, ma gran parte di noi ha fatto finta di non accorgersene. Persino chi non fa mistero delle proprie simpatie indipendentiste, sovraniste o solo federaliste ha creduto che, per fare un esempio, la guerra contro le province fosse davvero uno strumento per razionalizzare la spesa pubblica e, addirittura, per cominciare a debellare la casta politica. L’abolizione delle province – misura sacrosanta se avesse comportato la contemporanea abolizione delle prefetture e, dunque, del dominio del Governo centrale sugli enti locali – è solo un grimaldello per riaccentrare poteri. Il risparmio c’entra assai poco ed è comunque un effetto collaterale. Quel che i neo bonapartisti vogliono è un processo di concentrazione di tutti i poteri in capo allo Stato, ripercorrendo il cammino di “piemontizzazione” iniziato nel 1861, continuato durante il fascismo e interrotto nel secondo dopoguerra. Non è un caso che gli stessi vati anti-casta si scaglino contro le lingue delle minoranze non protette da trattati internazionali. Il preteso è che si spendono denari per tutelarle, spese inutili, sprechi. Una emerita stronzata, quasi che la lingua del Governo italiano non utilizzasse una marea di denaro per autotutelarsi e autoriprodursi. Il passo successivo era nelle cose e nelle cose infatti è: l’assalto alle regioni e, soprattutto, alle regioni speciali. Hanno ragione Adriano Bomboi scrivendo che questi attacchi sono il segno di una profonda incultura politica e Roberto Bolognesi, invitandoci a prepararsi al peggio. Fino a qualche tempo fa, gli assalti alle autonomie, comunali, provinciali e regionali, sono stati, per così dire, impliciti, detti sotto voce. La politica del Governo Monti contro le autonomie e, ultimamente, contro le lingue ha dato animo a questi neo giacobini e soprattutto ai due loro portavoce che hanno fatto nido nel più importante quotidiano italiano: Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo. Il primo un tantino più eufemista del secondo che ieri ha finalmente rovesciato sul Corriere della Sera tutto il suo carico di ideologie vetero-stataliste. Un vera summa di stereotipi giacobini, che, se diventassero davvero linea di governo, aprirebbero alla Sardegna (e alle altre nazionalità della Repubblica) un’unica strada: quella del distacco dallo Stato italiano. Rizzo non solo se la prende con la sinistra per la riforma del Titolo V della Costituzione, a suo parere troppo autonomista, ma caldeggia “l'unica proposta sensata che può rimettere l'Italia in carreggiata, ovvero una revisione radicale del ruolo e delle funzioni delle Regioni. A cominciare dall'abolizione degli statuti speciali”. Se così fosse, se – voglio dire – questa non fosse solo una mattana agostana, ma fosse la raccolta di piani di palazzo, alla Sardegna non resterebbe altro che mettere in cantiere con urgenza un progetto non più di Statuto di sovranità ma di Costituzione di stato indipendente. Mentre i partiti italiani nell’Isola, anche quelli che sembrano più aperti a un processo sovranista, cincischiano, persino votando la fiducia a chi ci discrimina su base nazionale, la cultura italiana dominante sogna un ritorno ad un centralismo totalizzante. E poco male se lo sognasse solo: sta regalando ad una politica allo sbando una elaborata piattaforma ideale e culturale per una azione concreta. È vero che, tutto sommato, con tutti i loro difetti e meschinità, i ceti politici sono meglio dei ceti intellettuali, ma non sarebbe male che in Sardegna riflettessimo con attenzione su quanto questi ultimi vanno partorendo. Non vorrei che ci trovassimo, del tutto impreparati e con disperazione, a dover reagire agli esiti di questa nuova ventata di depresso giacobinismo.
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