Innocente. Fabrizio Macchi già sapeva di esserlo e lo aveva sempre detto, anche quando, a fine agosto, gli avevano comunicato non sarebbe partito per le Paralimpiadi di Londra. Ora è arrivata la conferma del Tribunale nazionale di arbitrato per lo sport (Tnas). Prosciolto da ogni accusa e liberato da ogni sospetto di doping legato alla sua conoscenza e frequentazione con Michele Ferrari, medico e preparatore inibito a vita dalla Federciclismo.
Macchi aveva in effetti incontrato Ferrari, ma i suoi rapporti con lui, secondo la sua difesa e, ora, anche secondo la magistratura sportiva, si limitarono alla collaborazione che il fenomeno del ciclismo paralimpico aveva fornito alla figlia del medico alle prese con una tesi di laurea sui disabili nello sport. Era il 2007, Macchi non era ancora tesserato per la Federciclismo, e la frequentazione durò tre mesi: da febbraio a maggio. La tesi dei legali dell’atleta è stata accettata in toto dall’arbitrato, che l’ha scagionato ristabilendo la verità, ma senza fare giustizia.
Fabrizio Macchi è solo l’ultima vittima di una guerra senza quartiere che da sacrosanta battaglia al doping è diventata un’aberrante caccia alle streghe. Succede solo in Italia. Gli atleti spagnoli, anche i più sospetti, tutti quelli nella ormai fin troppo celebre lista di Eufemiano Fuentes, fino a prova contraria restano innocenti e possono gareggiare. Giustamente. La presunzione d’innocenza è una delle grande conquiste della giustizia moderna, da Cesare Beccaria in poi. Il principio che un uomo non dovrebbe essere privato dei suoi diritti finché non sia accertato che abbia compiuto un reato, dovrebbe valere nello sport quanto in campo penale. Ma non è così.
Andrea Baldini perse Pechino 2008 per un sospetto. Ci sarebbe arrivato da favorito assoluto nella prova di fioretto, da numero 1 al mondo, ma non ci andò. Nelle sue urine fu trovato del furosemide, un diuretico che non è dopante, ma può essere usato per coprire altre sostanze. Sostanze che, manco a dirlo, non furono trovate nelle successive analisi più approfondite, i cui risultati arrivarono dopo che a un ragazzo di 23 anni era stata negata un’Olimpiade. Lui, che aveva gridato al complotto sostenendo che qualcuno gli avesse inserito il farmaco nell’acqua, fu prosciolto dal tribunale sportivo, che lo squalificò per sei mesi per negligenza. Come a voler dire: «La prossima volta stai attento alla borraccia». Consiglio che Baldo ha preso alla lettera, e da allora beve solo da bottigliette di plastica sigillate.
Peggio, molto peggio, è andata a Filippo Pozzato. Ciclista come Macchi, anche lui sempre pulito ai controlli, ma reo di aver frequentato, a sua volta, Ferrari. Un sospetto dunque, ancora una volta, e ognuno la pensi come vuole. Sta di fatto che non esistono prove che dimostrino che lui abbia mai assunto sostanze proibite. Deferito, ha perso le Olimpiadi di Londra e i mondiali di Valkenburg, è stato squalificato per tre mesi, il minimo della pena. La colpa? Conoscere un delinquente.
La lotta al doping è importante, perché si tratta di una pratica pericolosissima, prima ancora che di una chiara manifestazione di slealtà sportiva. Di un sistema che va molto più a fondo di quanto sembri, e raggiunge anche i settori giovanili. Lo testimonia il caso della giovane nuotatrice romane finita in coma dopo aver ingerito 20 cucchiaini di bicarbonato di sodio (utilizzato per abbassare la produzione di acido lattico) mischiati con citrosodina e un farmaco antinfiammatorio. La lotta però va condotta nel profondo, dentro le palestre, sui campi d’allenamento, non pescando di tanto in tanto il nome noto e sottoponendolo a una vergognosa gogna mediatica che arriva ben prima dell’accertamento delle responsabilità. Perché Macchi, Baldini e Pozzato hanno perso un’Olimpiade senza colpe verificate, nel nome dello sport pulito, tanto per fare un po’ di pubblicità positiva al Coni. Ai primi due si è potuta restituire la dignità, al terzo nemmeno quella.
Foto tratta da www.fabriziomacchi.com/
OA | Gabriele Lippi