Magazine Cinema
Brasile, 2011
79 minuti
Dopo un lungo periodo di separazione, una giovane donna fa ritorno al villaggio d'origine (una landa abbandonata e fatiscente nello Stato del Ceará, a nord-oriente del Brasile) per rincontrarsi con la madre e dare sepoltura al figlio nato morto. Fedele ad antiche tradizioni locali, l'anziana madre, dopo aver benedetto il bambino vorrebbe custodirne per un periodo il corpo in casa, assieme alle consunte fotografie dei propri defunti e del marito, misteriosamente scomparso.
Al contrario, la figlia vorrebbe invece interrompere tali abitudini, anche a costo di risvegliare da un'apparente catalessi quelle presenze ataviche che sembrano sorvegliare ogni movimento, dai limitari del bosco. Determinata nella sua posizione, al primo sorgere del giorno s'incammina fino a raggiungere le rovine di una chiesa; seppellirà il figlio sull'altare, ai piedi di una statuetta della Madonna...
Traslocato direttamente qui, dal podio delle migliori cose viste nell'anno che si è appena concluso, Mãe e Filha è uno di quei film dall'impatto emozionale immediato, qualcosa che ti coinvolge all'istante fin dai primissimi fotogrammi e che raramente, capita di vedere nell'arco di un tempo ristretto. Un'opera indecifrabilmente oscura (una sorta di rarità anche all'interno della più recente cinematografia brasiliana, in quanto considerato uno dei film più cupi) ma al contempo irradiata di una luminescenza poetica, vagamente reygadasiana. Un film che predilige i lunghi silenzi e si sospende tra le tenebre e la luce; tra il dolore per il lutto e l'amore materno. Il legame tra madre e figlia è destinato a incrinarsi nel tempo, come le fenditure murali sulle quali la camera di Petrus Cariry si sofferma generandone una visione astratta che ben s'incorpora in quella regione che sembra sospendersi nell'onirico (le riprese al ralenty degli animali, e la cavalcata degli "spettri" - transitorie reminiscenze dei Templari di Amando De Ossorio?). Nonostante sia alquanto difficile analizzarlo adeguatamente dopo una sola visione (oltretutto in portoghese), perchè cinema che fonda le sue radici nella magicità di certi riti locali, nel folclore e in quelle leggende più ancestrali che per noi, sommersi in un quotidiano totalmente estraneo a tali realtà, è quasi impossibile addentrare. L'onore a pieno titolo di primo film dell'anno se lo merita comunque per due principali ragioni.
La prima, risiede nella straordinaria completezza dell'insieme; da una costruzione bilanciatissima nei tempi a un'armoniosità semplicemente perfetta nella comunione delle forme (luci, ombre, rovine di una città fantasma, scorci naturalistici) e nelle suggestive atmosfere emanate dai decadenti interni, pregni di un retrogusto quasi gotico dove i quadri, e i volti su di loro impressi, vengono ancora oggi illuminati dall'esile fiamma di una candela pronta lentamente a spegnersi, lasciando il libero espandersi dell'oscurità notturna. Oltremodo, durante le lunghe esplorazioni della figlia per quei corridoi trasudanti di memorie (e ancora una volta emergono salde analogie - anche per territorialità - con Historias que só existem quando lembradas), Cariry infonde maestosità all'opera rivolgendo il suo sguardo alla bellezza dell'arte più classica; tra pittura (il dipinto più famoso di John Everett Millais, Ofelia) e musica (l'imponente sinfonia della Musica per il funerale della Regina Maria - Funeral Music for Queen Mary - di Henry Purcell), miscelando magistralmente queste due forme in quello che indubbiamente si è rivelato il momento più estatico*.
La seconda ragione, è che in meno di ottanta minuti il film riesce a compendiare quelle che, fondamentalmente, sono sempre state le maggiori inclinazioni cinefile del sottoscritto (l'horror più destabilizzante, il dramma più metafisico, tutto quel cinema più paesaggistico e/o architettonico); quella visione sul cinema, insomma, perseguita nel corso degli ultimi anni e che in definitiva, forma il tracciato guida per questo piccolo spazio virtuale. Mãe e Filha, rispecchia quindi in maniera esemplare tale concetto, a prescindere dalle possibili mode attuali. Ed è per questo, che il film di Cariry merita di stare qui, imprimendosi in questo spazio, oggi, a testimonianza di un percorso immutabile, in egual misura a quanto merita(va)no di occupare queste pagine un anno e mezzo fa, opere inossidabili come Flandres o Stellet Licht; due titoli posti ad esempio concreto, la cui ammirazione nei loro confronti (e soprattutto, in quella dei rispettivi autori), nel corso del tempo non è variata di una virgola.
Buon 2015!
*Seppur rivisitata più volte, in svariati film, l'opera di Henry Purcell mi lega indissolubilmente a quello che ritengo tuttora sia tra i più sinistri cult dell'horror nostrano: Antropophagus (1980) del compianto Joe D'Amato. Visto per la prima volta da ragazzino, ne rimasi impressionato per mesi. La scena menzionata in questo punto, ne ricorda in gran parte le atmosfere, essendo anche il film di Cariry, sostanzialmente avvolto in un'aura orrorifica.
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