Poi, pochi giorni dopo, tocca al governatore della Banca d'Italia (leggi qui l'intero intervento su Le mafie a Milano e nel Nord) mettere nero su bianco valutazioni inquietanti: "Le infiltrazioni nel sistema economico e finanziario sono tuttavia insidiose - scrive Draghi -. Esse sono documentate, tra l’altro, dai dati sulle denunce per riciclaggio di capitali illeciti e per usura, reati più “silenziosi” e tuttavia spesso riconducibili a
sodalizi criminali di stampo mafioso. In Lombardia l’infiltrazione delle cosche avanza, come ha recentemente avvertito la Direzione nazionale antimafia. Le denunce per associazione a delinquere di stampo mafioso si sono concentrate fra il 2004 e il 2009 per quattro quinti nelle province di Milano, Bergamo e Brescia. In quello stesso periodo più dell’80 per cento delle denunce per associazione mafiosa in Lombardia ha riguardato individui provenienti da Sicilia, Calabria, Campania, confermando che al Centro Nord la presenza mafiosa rimane un fenomeno d’importazione. Tuttavia la criminalità locale appare coinvolta in molti
reati pure tipicamente riconducibili al crimine organizzato di stampo mafioso, come l’usura, il riciclaggio e le estorsioni: ne emerge una preoccupante saldatura con le mafie tradizionali".
Ieri sul Corriere il procuratore capo di Reggio Calabria in una lettera ha lanciato un appello al Nord perchè batta l'omertà che rischia di favorire la criminalità: "Come ha documentato l'indagine «Il Crimine» - scrive il magistrato -, frutto della collaborazione tra le procure di Milano e Reggio Calabria e che il 13 luglio scorso ha portato a 300 arresti in tutta Italia, la 'ndrangheta è riuscita a realizzare una vera e propria «colonizzazione» in ampie zone della Lombardia, e non solo, riproducendo la sua peculiare struttura organizzativa con la creazione di decine di locali e con l'affiliazione di centinaia di persone, ma senza mai interrompere il legame essenziale con la terra d'origine a cui sono sempre rimesse le decisioni strategiche. (...)
"Ma la repressione non basta - conclude-. È necessaria la reazione della società civile, con tutte le sue articolazioni, ognuna delle quali può svolgere un ruolo prezioso, innanzi tutto agendo secondo le regole e contrastando il silenzio e l'omertà: così si può sconfiggere questo cancro della società, come l'hanno definito i vescovi italiani, che mette a rischio l'economia e la democrazia del nostro Paese".
Oggi infine gli industriali lombardi promettono di cacciare gli imprenditori che sono vicini ai clan.
Accanto ai rinnovati allarmi sulla criminalità organizzata nel bresciano, ecco affacciarsi poi episodi inquietanti come l'esclusione di 12 azienda dai lavori per la Brebemi perchè sospette collusioni mafiose (con l'arrivo dei lavori per la Tav, il tema si fa di scottante attualità) o il ferimento. con dinamiche da avvertimento mafioso (e per ora nessun investigatore ci ha detto che le cose sono andate diversamente), di un imprenditore di Cazzago San Martino che (sarà un caso?) si occupa proprio di strade e asfaltature.
Scoprire la mafia a Brescia è un po' come scoprire l'acqua calda: a corredare questo post allego un documentario girato qualche anno fa proprio nella nostra città e un mio articolo scritto su Bresciaoggi all'indomani dell'omicidio della famiglia di Angelo Cottarelli, una esecuzione in piena regola i cui sicari, riconosciuti colpevoli dalla Corte d'Assise d'Appello arrivavano da Trapani, giusto per dare un quadro di come le mafie si muovano da tempo all'interno del nostro tessuto sociale ed economico. Ma se il fenomeno è radicato, oggi, dopo operazioni antimafia che negli anni passati hanno offerto uno spaccato inquietante nella nostra provincia (capace di dar vita in Valtrompia ad una "simil-mafia" autoctona), come è la situazione?
In Tribunale è in corso da qualche tempo un processo (noto come il caso Fortugno) che lascia aperti scenari inquietanti su Brescia e la criminalità organizzata, ma pare che il dibattimento su quella definita da qualcuno una 'ndrina del Garda resti quasi un'episodio isolato, nulla nei confronti della maxi inchieste dei decenni passati.
Va tutto bene? I segnali lanciati in questi giorni da investigatori preparati e autorevoli esponenti del mondo economico sono solo allarmismi? Urge fare il punto della situazione. Quantomeno per dirci (anche se ho qualche dubbio che sia così) che possiamo dormire sonni tranquilli.
LA MAFIA A BRESCIA (come eravamo... non molto diversi da ora)
Brescia tra le spire della piovra? La criminalità organizzata ha messo gli
occhi sulla nostra città? L’efferata esecuzione della famiglia cottarelli,
il sangue sparso copioso in via Zuaboni sembrano aver squarciato il velo su inediti scenari criminali, ma, in realtà, nulla di nuovo brilla sotto il sole pallido e spaventato di questa fine estate tutta sangue e delitti.
Nulla di nuovo per una provincia che ne ha viste tante sul fronte della criminalità organizzata. Che non ha dovuto fare i conti con le guerre di mafia che hanno insanguinato il meridione, ma ha rappresentato un rifugio sicuro per tanti boss: da «don» Raffaele Cutolo, leader della Nuova Camorra organizzata, approdato in una villetta di Soiano negli anni ’77 - ’78, al tempo della sua fuga da Poggioreale; a Felice Maniero, il «bello» e indiscusso capo della «Mafia del Brenta», approdato anche lui da queste parti dopo l’evasione, il 16 dicembre 1987, dal penitenziario di Fossombrone. Rifugi sicuri e amici fidati. Così Raffaele Cutolo poteva contare su Oreste Pagano, rappresentante di biancheria trapiantato sul Garda, poi approdato in Sud America a trafficare droga ( con un contabile di Rodengo Saiano) per i clan della famiglie Caruana - Cuntrera, ora pentito con buona memoria. Mentre Maniero, anche lui saltato il fosso del pentimento, non si è certo lasciato pregare nel raccontare degli amici bresciani e di quel covo dove sarebbero transitati anche 10 chili di esplosivo gelatinoso provenienti da Milano e dagli amici del boss Francis Turatello, nome illustre, da cronaca criminale ormai diventata storia come le bische del Ticinese e il clan dei marsigliesi. Nulla di nuovo, dunque, per una provincia che ha sempre rappresentato, prima come satellite più appartato di una Milano onnivora e supercontrollata, poi come volano in proprio di una criminalità sempre più spinta sulla strada del riciclaggio e del businness finanziario, un granaio ricco. Un ambiente tranquillo solo in apparenza, che ha saputo digerito misteri che rimangono ancora oggi gialli intriganti. Come non ricordare ad esempio la storia di Antonio Messina, catanese fuggito dalla Sicilia, il cui corpo fu trovato nel settembre 1991 sulle colline di Sale Marasino? Era nel bosco da giorni se non da mesi e fu difficile anche capire le cause della sua morte. Ad identificarlo un amico siciliano che si presentò il giorno dopo la scoperta del cadavere ai carabinieri. Come era venuto a conoscenza della morte di Antonio Messina non lo disse, così come tacque - fu l’opinione degli inquirenti - molti particolari su quel decesso. Segreti che si portò nella tomba, visto che quell’uomo, qualche mese dopo fu freddato dai sicari nell’hinterland milanese, allungando una scia di sangue, partita da Sale Marasino e costellata di morti e feroci esecuzioni. Quante efferatezze ha visto il Lago di Iseo, tomba per molti malavitosi! Fu il caso di due amici di origine meridionale scomparsi da Darfo e i cui corpi riaffiorarono negli anni ’90 fasciati come mummie e assicurati a pesanti zavorre. La macabra scoperta fu fatta anni dopo la scomparsa e proprio mentre il caso era stata riaperto sugli schermi della trasmissione «Chi l’ha visto?». Esecuzione di stampo mafioso si disse allora (un boss locale, da sempre indicato come referente delle famiglie calabresi, finì sotto indagine, ma poi l’inchiesta si incagliò senza un nulla di fatto). Così come la mafia si evocò quando, ad esempio, il 17 novembre ’95 il corpo bruciato di Adolfo Pedana, di Villa Literno, fu trovato nelle campagne di Lonato carbonizzato come l’auto nella quale era stato incaprettato. Oppure come quando una sera del settembre 1998 il parcheggio del Centro commerciale «Le Rondinelle» di Roncadelle si trasformò in un’arena. Il toro da freddare era Alessio Magistro, manager tarantino, che nella sua città natale era stato anche presidente di una municipalizzata. Quella notte, poche ore dopo, qualcuno uccise nelle campagne di Brandico Stefano Punzi, avvocato di Taranto, freddato a colpi di pistola e poi bruciato nell’auto - sarcofago. Per Punzi e Magistro fu processato e condannato un boss di Marcianise, al confino in provincia di Brescia, e dal processo emerse che la coppia di professionisti erano emissari della criminalità organizzata, coletti bianchi spediti al nord per fiutare buoni affari, immobili nei quali investire denaro sporco. Così gli inquirenti scoprirono che Punzi e Magistro erano pronti a trattare l’acquisto di alberghi sul lago di Garda, dove avevano già alloggiato in diverse occasioni prima di finire stritolati in quella che aveva tutta l’aria di essere una guerra tra bande. E se stupisce l’efferatezza di via Zuaboni a Urago Mella, che dire della sorte di Giuseppe Leonardo Leonardi e di Alena Koldelocova, ballerina ceka di 19 anni? La coppia, che vive sul Sebino, con interessi tra la nostra provincia e quella di Bergamo, fu trovata il 30 agosto del 2000 in un campo di mais a Erbusco, a ridosso dell’autostrada. Uccisi e bruciati in un linguaggio mafioso che oltre a lasciare pochi dubbi ai compagni del gruppo, era avaro di tracce per gli inquirenti. Un pugno di cenere che rende fragile ogni castello accusatorio. Ma nei fascicoli passati sui tavoli della procura distrettuale antimafia e di altre procure del Nord tracce mafiose a Brescia ne sono state trovate tante da far finire la nostra provincia anche nelle relazioni della Commissione parlamentare antimafia. Così capita di ritrovare Lumezzane in una delle inchieste più estese sulle infiltrazioni delle cosche calabresi al Nord (qui i pentiti raccontano di cresime in riva al Sebino usate come incontri al vertice tra i boss); o un imprenditore di Concesio nella storica «Pizza Connection», la prima grande inchiesta su «Cosa Nostra»; oppure il lago di Garda e i locali della periferia cittadina come i ritrovi preferiti nei quali gruppi vicini alla Camorra avevano basi e interessi economici. In qualche indagine si arrivò ad ipotizzare la presenza di una vera e propria cellula affiliata alle grandi organizzazioni (accadde qualche anno fa con le indagini sulla cosiddetta «Camorra bresciana»), ma la tesi accusatorie non superarono il vaglio giudiziario, sempre avaro a Brescia nel confermare ipotesi di associazione a delinquere. Questo non vuole dire, però, che nei decenni Brescia e la sua provincia non sia diventata terra di conquista. Lo dicono le inchieste giudiziarie, lo confermano le cronache fatte di sangue ed esecuzioni. Stupirsi oggi di quanto accaduto a Urago Mella e come confessare di aver nascosto fino agli orrori di casa Cottarelli la testa sotto la sabbia.
Marco Toresini
(da Bresciaoggi - 1 settembre 2006)