Il direttore dell’Unione Sarda Anthony Muroni sostiene, sul suo blog personale, che la mafia non è soltanto un boss che spara per la strada ma è soprattutto un sistema che percorre tutta l’Italia, un modus vivendi fatto di “privilegi, concorsi truccati, reti di parentele intrecciate, cognomi che si ricorrono di generazione in generazione”. Una tesi del tutto condivisibile, che vale anche e soprattutto per la Sardegna. Finora i media, i politici e i sociologi avevano sempre liquidato superficialmente la questione sentenziando che la nostra regione è del tutto esente da fenomeni come mafia, camorra e ‘ndrangheta. Come se ci fosse bisogno di omicidi con la lupara e auto imbottite di tritolo per capire che anche in Sardegna la gestione del potere avviene spesso e volentieri con uno schema di stampo mafioso portato avanti da pochi ma che avvelena la parte buona della società. Mafia è un sistema politico-economico in cui il potere è gestito in maniera clientelare e corrotta. E’ un sistema dove gli uffici di molti politici sono spesso ambulatori pieni di gente che chiede favori e prebende. Mafia è un sistema dove in campagna elettorale un voto costa tot euro, in cui si entra nei posti di lavoro o si vincono i concorsi pubblici soltanto se si hanno le conoscenze giuste. Mafia è un mondo del lavoro malato, in cui chi lavora onestamente viene considerato l’ultima ruota del carro, mentre fa carriera solo chi esegue gli ordini del padrone. Dove chi prova ad alzare la testa viene insultato e mobbizzato. Mafia è un sistema in cui vige la regola della prepotenza e del sopruso. E un sistema dove l’informazione tende a dare spazio solo ai più forti soffocando spesso le voci delle minoranze. E’ un sistema sanitario gestito da potenti lobby farmaceutiche. E’ un sistema universitario in cui i grandi baroni fanno il bello e il cattivo tempo. Mafia è un sistema sociale malato che si alimenta di silenzi e connivenze. Dell’omertà di chi sa ma non parla. Perché ha paura o perché parlare non conviene. Perché parlare spesso porta tanti sacrifici e rotture di scatole. E allora possiamo veramente dire che in Sardegna la mafia non esiste? Oppure dobbiamo dire che in questi anni la mafia sarda ha proliferato, alimentata dall’indifferenza, dalla paura e dal silenzio? Dalla connivenza di chi è stato messo ai posti di comando e ha sempre approfittato della copertura dei suoi protettori per esercitare vigliaccamente il suo potere sui malcapitati sottoposti? O di chi è sceso a compromessi per un buon posto di lavoro alla faccia di chi quel posto lo meritava davvero? Possiamo dire che la società sarda è un covo di educande in cui imperano la solidarietà e l’amore per il prossimo? In cui regnano la lealtà e la meritocrazia? O è un sistema in cui chi può arraffa, protetto da un malcostume imperante, e chi prova ad alzare la testa e comportarsi correttamente, ancor più se denuncia gli intrallazzi, viene emarginato e mobbizzato? La risposta al quesito è aperta: sta alla coscienza e all’esperienza di ciascuno di noi.
La mafia si combatte con le parole
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