Poche settimane dopo la strage di Capaci in cui morì il giudice Giovanni Falcone, nel giugno del 1992 l’allora ministro dell’Interno Vincenzo Scotti, con l’allora ministro della Giustizia iniziò a lavorare sul decreto legge che prevedeva il carcere duro per i mafiosi, il cosiddetto “41 bis”, ma “quando accelerai per l’approvazione del decreto fui isolato politicamente”.
Vincenzo Scotti, ex ministro dell’Interno (cronachemaceratesi.it)
Lo sfogo è dello stesso ex ministro Scotti, deponendo al processo per la trattativa tra Stato e mafia, che si celebra davanti alla Corte d’assise di Palermo. Tra gli imputati “eccellenti” spiccano i nomi dell’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, ma anche dei generali Mario Mori e Antonio Subranni.
In oltre sei ore di deposizione, Scotti, oggi ottantenne ma con una memoria di ferro, ha ripercorso i momenti più importanti della sua esperienza a capo del Viminale. “Percepii un clima di isolamento politico, attraverso il silenzio – racconta Scotti – o attraverso gli attacchi. Il silenzio è molto più pesante”. In quel periodo, 59 deputati democristiani scrissero una lettera di solidarietà a favore di Scotti che fu pubblicata dal giornale Dc, Il Popolo. Scotti ribadisce con forza che dopo il delitto Falcone lo Stato “doveva agire contro Cosa nostra”. Così Scotti accelerò sul 41 bis, innanzitutto, ma incontrò molte resistenze. Il decreto venne poi approvato definitivamente nell’agosto 1992, dopo la strage di via D’Amelio. “Ho sentito la solitudine politica in un periodo particolarmente difficile, come quello”, ha aggiunto. E mentre l’Italia era sconquassata e sconvolta dalla strage di Capaci, Scotti venne sostituito a sorpresa al vertice del Viminale. “Non so perchè avvenne questo cambio”, dice a distanza di 22 anni. E la richiesta, arrivata dai vertici della Balena bianca, di lasciare il Viminale e andare agli Esteri. Senza una spiegazione.
Secondo l’accusa, rappresentata dai pm Vittorio Teresi, Nino Di Matteo e Francesco Del Bene, il Governo decise di scegliere una linea più morbida nella lotta ai clan mafiosi, soprattutto per quanto riguarda il cosiddetto carcere duro, cioè il 41 bis. Una strategia che avrebbe portato, appunto, all’avvicendamento al Ministero degli Interni di Enzo Scotti con Nicola Mancino e di Claudio Martelli alla Giustizia con Vincenzo Conso, il quale decise successivamente di non rinnovare il carcere duro per alcuni boss sottoposti a regime. “Ciriaco De Mita mi disse che avrei dovuto scegliere gli Esteri – dice Scotti – e mi chiese di scegliere tra il Governo e il Parlamento, dicendo che c’era una forma di incompatibilità. Io non chiedevo di restare al Governo, ma se c’era la possibilità di continuare nell’azione intrapresa da me, avevano tutta la mia disponibilità. Ma, purtroppo, non c’era disponibilità alcuna per cambiare posizione all’interno del Governo. Mi dissero di andare agli Esteri ma io risposi a De Mita di no”, continua ancora l’ex ministro. Alla fine, Scotti, ma solo dopo molte insistenze del premier di allora, accettò l’incarico di ministro degli Esteri, ma presentò dopo pochi giorni la lettera di dimissioni. Il Presidente del Consiglio di allora – racconta in aula - mi disse che non potevo non accettare l’incarico agli Esteri e che non avrei dovuto creargli problemi. Ma io non volevo accettare perchè volevo portare a compimento il lavoro iniziato agli Interni, con le norme contro la criminalità organizzata”.
“Ognuno dia un pezzettino di verità e alla fine sarà la Corte d’assise di Palermo a comporre il puzzle…”. L’ex ministro dell’Interno, Vincenzo Scotti ha risposto così all’Adnkronos alla domanda se ha mai avuto conoscenza dell’esistenza di una trattativa tra Stato e mafia. Scotti, che ieri ha deposto per quasi sei ore, al processo che si celebrava davanti alla Corte d’assise di Palermo, rispondendo alle domande dei pm Nino Di Matteo, Vittorio Teresi e Francesco Del Bene, ha ripercorso il periodo in cui era ministro dell’Interno. Il 17 maggio, cioè appena cinque giorni prima della strage di Capaci, incontrò l’allora Commissione nazionale antimafia per parlare di un pericolo attentati. “Io chiesi in quell’occasione di fare una riflessione politica sulle linee da seguire – dice prima di lasciare l’aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo – bisognava capire le strategie della politica antimafia e su quello poi misurarsi. Poi i giudici fanno il loro mestiere”.
Dalla fine del ‘91 agli inizi del ‘92 c’è stata un’intensificazione della reazione della mafia ai provvedimenti che venivano adottati dal Governo”, ha detto Scotti ai magistrati. “Anche il capo della Polizia di allora – dice ancora Scotti - il 20 maggio del ‘92 consegnò al Parlamento una documentazione ampia. Io, sulla base di questi fatti, da ministro dell’Interno riunii il Comitato per l’ordine e la Sicurezza e registrai in quell’occasione le preoccupazioni. Non si trattava di prendere singolarmente i fatti, ma di metterli insieme dei fatti concreti, delle informazioni provenienti dalle forze di polizie e dai servizi segreti e, attraverso un lavoro di intelligence, indicare un significato in una direzione”.
”Eravamo passati da una quantità di ‘picconate’ del Capo dello Stato di allora a un impeachment del Capo dello stato – prosegue ancora Scotti nella sua deposizione, rispondendo alle domande del pm Nino Di Matteo -. Due giorni dopo il Corriere pubblicò la notizia, e i presidenti di Camera e Senato mi chiamarono per sapere cosa era successo, così dovevamo decidere cosa dire in Parlamento”. E il pm Di Matteo gli ricorda una frase usata dallo stesso Scotti, nel ‘92, su una “campagna di destabilizzazione delle istituzioni da parte della criminalità organizzata”. “Le segnalazioni dei servizi segreti facevano riferimento a questo – ha detto ieri -. Tre giorni prima del 20 maggio avevano parlato alla Commissione antimafia e avevo chiesto alla stessa Commissione e alle forze politiche presenti di rispondere a un interrogativo: qual era la scelta che si voleva fare, cioè di scontro a 360 gradi con la criminalità organizzata, o volevano avere un atteggiamento di connivenza che avrebbe consentito un clima diverso, meno violento, ma ci portavamo sulle spalle la responsabilità di una situazione di corrodimento della vita sociale economica e politica. Io mi trovai di fronte a cosa decidere col capo della polizia”.
Nella primavera del 1992, pochi mesi prima delle stragi mafiose di Capaci e via D’Amelio, l’allora ministro dell’Interno Vincenzo Scotti inoltre lanciò l’allarme attentati con una circolare datata 20 marzo ‘92. Scotti ha ricordato infine che, dopo l’omicidio dell’eurodeputato Salvo Lima a Palermo, e dopo avere ricevuto una serie di segnalazioni, sia dalle forze dell’ordine che dei servizi segreti, lui stesso e l’allora capo della Polizia Vincenzo Parisi, con una circolare segnalarono alle prefetture “un imminente piano di destabilizzazione di Cosa nostra nei confronti dello Stato”. In aula è stata ricordata anche la famosa frase di Giulio Andreotti che parlando della circolare, la definì una “patacca”.
(adnkronos.it)